Nascene ancora le rovine delle cittadi, per non si variare gli ordini delle repubbliche co’ tempi
Niccolò Machiavelli, Discorso sopra prima deca di T. Livio, 1513-19 (ed. Firenze 1531) 


 

Il pensiero medievale (in cui troviamo le opere di Marsilio da Padova e Tolomeo da Lucca, priore di Santa Maria Novella e poi vescovo di Torcello), lavorando sulla Politica di Aristotele, ha dedicato grande attenzione al tema del governo collegiale, cittadino, detto «politico» (elettivo e per ciò il migliore secondo Tolomeo da Lucca), pluralistico. «Un sistema pluralistico - come ebbe ad osservare Silvio Trentin in Stato - Nazione Federalione (1940) - che i glossatori italiani, con alla testa Bartolo da Sassoferrato (allievo di Cino da Pistoia) e Baldo da Perugia (docente di diritto presso le università di Bologna, Perugia, Pisa, Firenze, Padova e Pavia), riuscirono a «qualificare vagamente come stato nazionale» in cui «gli stati-Città acquistano la dignità di enti dotati della più ampia autonomia giuridico-politica, vere civitates superiorem non recognoscentes, in quanto appunto esse esprimono delle perfectae et per se sufficientes communitates».  Questa tradizione verrà poi sviluppata dal grande teorico rinascimentale del federalismo, Johannes Althusius (in italiano anche Altusio) (Diedenshausen, 1563 circa – Emden, 1638), giurista, filosofo e teologo tedesco che fu a capo del governo della città di Emden dal 1604 fino alla morte. Nella sua opera Politica Methodice Digesta, Atque Exemplis Sacris et Profanis Illustrata del 1603 (recentemente pubblicata interamente in italiano) così distingue la comunità organizzata dal popolo inteso come «folla, congrega, moltitudine, aggregato, gente» (qui citata dall’edizione napoletana del 1980 curata da Demetrio Neri):

«La Politica è l’arte per mezzo della quale gli uomini si associano allo scopo di instaurare, coltivare e conservare tra di loro la vita sociale». «Oggetto della politica è dunque l’associazione» (5) tra individui «simbiotici». «Si dicono simbiotici (cooperatori) coloro i quali, uniti ed associati dal vincolo di un patto, si comunicano reciprocamente ciò che è necessario ad una confortevole vita dell’animo e del corpo: essi insomma sono partecipi di una comunione» (6). «Questa mutua comunicazione si riferisce a cose, servizi e diritti comuni, per mezzo dei quali si supplisce ai vari e molteplici bisogni dei simbiotici, individualmente e collettivamente intesi.» […] «Perciò Cicerone scrisse che «il popolo è un aggregato di persone associate nel consenso ad un solo diritto e nella comunione delle cose utili» [De Rep., I, 25]. Ai fini di questa comunicazione i vantaggi e gli oneri vengono assunti secondo la natura di ogni particolare associazione» (6). «Esistono due tipi di associazione privata semplice: quella naturale e quella civile» (14). Quest’ultima «si ha quando alcune persone si associano per costituire, esclusivamente sulla base del loro consenso e della loro volontà, un corpo unitario in vista dell’utilità e delle necessità umane» (17). «L’associazione pubblica è quella cui dà luogo l’unirsi di diverse associazioni private al fine di costituire un politeuma. Può essere definita «comunità politica»» (21), distinta in «particolare e generale» (22). Al tempo di Althusius «il popolo delle città, delle province, dei regni o Stati» era «distribuito in tre ordini, stati o corporazioni generali e maggiori, a seconda della professione, vocazione e del diverso tipo di vita. La prima corporazione è quella ecclesiastica, la seconda quella dei nobili e infine quella del popolo o plebe, costituita dagli uomini colti, dagli agricoltori, dai mercanti e dagli artigiani» (20). «La cosiddetta città è costituita da molteplici famiglie e corporazioni viventi nello stesso luogo sotto leggi definite» (22). La provincia «comprende nel complesso del suo territorio parecchi villaggi, borghi, castelli, città, uniti ed associati nella comunione e nell’amministrazione di un solo diritto (Digesto, I, 18, 13)» (27). Con l’ordinamento in stati tutti gli abitanti «si vedono ammessi all’amministrazione della cosa pubblica. Ciò alimenta l’amore, la benevolenza e la cura comune tra i provinciali, poiché tutti comprendono che si esercita una diligente attenzione verso ognuno dei singoli appartenenti ad ogni classe; che vengono ascoltati i oro desideri sia circa l’acquisizione delle cose utili e necessarie, sia circa l’allontanamento dei danni e degli svantaggi; che, infine, vengono approntati rimedi ed aiuto contro i potenti o i turbatori della quiete  pubblica. Gli ordini provinciali sono di due tipi: dacri o civili (secolari)» (29). «Difatti, la proprietà del regno appartiene al popolo» (35). «Il monarca, dunque, non ha il potere supremo, perpetuo e al di sopra delle leggi e, di conseguenza, non sono di sua proprietà i diritti di sovranità, sebbene egli possa averne l’amministrazione e l’esercizio per la concessione del corpo associato.» (39). «La legge, ossia il diritto» «Seneca (De Clementia, I) la definisce vincolo che tiene assieme lo Stato, spirito vitale che anima la collettività, senza il quale questa non sarebbe altro che peso e oggetto di preda; o ancora lucerna della vita civile, bilancia di giustizia, preservatrice della libertà, baluardo della disciplina e della pace pubblica, ausilio dei deboli a freno dei potenti, norma direttiva del dominio.» (44) «Quando dunque comprendiamo cosa abbiamo il dovere di fare nei confronti del prossimo, è facile dedurre che cosa si deve evitare ed omettere» (44)

 Massimo Cacciari, Achille Variati, Flavio Zanonato, Gianfranco Bettin e Elso Resler
 

R e l a z i o n e:                                 “Nascene ancora le rovine delle cittadi, per non si variare gli ordini delle repubbliche co’ tempi” Niccolò Machiavelli

La nostra proposta di Costituzione per la Regione Autonoma del Veneto intende contribuire al più generale processo di riforma in senso federalista della Carta Costituzionale italiana. E in tal senso essa si mantiene aperta, pronta ad accogliere le modifiche che ci auguriamo interverranno a rafforzare ulteriormente il ruolo dell’Ente Regione. La storia del regionalismo italiano ha fino ad oggi profondamente contraddetto questa prospettiva. Non a torto Calamandrei definiva le nostre Regioni “catafalchi centralistici”. L’ente Regione va oggi ripensato e ricostruito a partire dalle comunità originarie, dalle autonomie sociali e funzionali, dai Municipi e dagli Enti intermedi. Ciò in coerenza con tutta la storia del nostro Paese e con una idea di federalismo davvero all’altezza delle sfide attuali. La nostra proposta di Costituzione non concepisce tuttavia l’autonomia della Regione in termini conflittuali con l’Amministrazione centrale. Al monolite da lanciare contro Roma cui pensa qualcuno, centralizzato e chiuso, si oppone la nostra immagine di una realtà federata, ricca di differenze e di autonomie, di cooperazioni e di specializzazioni funzionali, aperta alla partecipazione dal basso e consapevole che dalla divisione della sovranità statale risulta un intreccio di poteri, irriducibile alla logica autarchica. Riconosciamo la natura non pattizia né strumentale dell’unità della nostra Repubblica all’interno della Comunità Europea. Su procedure di contrattazione con lo Stato andranno, invece, risolte le questioni attinenti alla compartecipazione al gettito tributario e alle politiche di riequilibrio. La Regione contratta con lo Stato i rapporti dal punto di vista del gettito tributario ma ha l’obbligo di rispettare le politiche di stabilità fissate dall’Unione Europea e le scelte dello Stato per la perequazione in favore delle aree deboli; per queste ultime può chiedere la perequazione orizzontale, ovvero di gestire direttamente i rapporti con le aree deboli del Paese. La nostra proposta di Costituzione non si fonda su un’astratta rivendicazione di autonomia, ma sull’identità storica e culturale della nostra Regione. Essa si esprime nella convivenza di diversi gruppi sociali, etnici e linguistici; sui valori della cooperazione e dell’intraprendenza; sulle attitudini democratiche e autogestionarie del nostro associazionismo; sui vincoli originari della famiglia e della comunità; sulla varietà biologica e sulla ricchezza morfologica del suo ambiente fisico-naturale. Il Veneto è Regione di ecosistemi diversi e in questa complessità riconosce una ricchezza inestimabile. Il mare e la montagna, la pianura e le lagune. i grandi e piccoli fiumi. i laghi e i ghiacciai, le sorgenti e le foci, le foreste, le colline, le paludi: sono ecosistemi che hanno sempre dialogato con una civiltà che ha sempre saputo conservarli, apprezzarne i valori, trarne giovamento nelle proprie esperienze umane, sociali, economiche, culturali. In questo senso, il Veneto nei secoli è stato un eccezionale laboratorio di civilizzazione e di sviluppo compatibile, capace di modellare il paesaggio per gli usi umani e, insieme, capace di rispettarlo. Questa vocazione va oggi interamente recuperata. Tale ricchezza e complessità della nostra Regione impone perciò forme di governo fondate sulla più piena applicazione del principio di sussidiarietà e su forme di governo poliarchiche. La Regione quindi è organo politico a forte impronta regolativa e federativa con facoltà dirigistico-gestionali leggere. I principi della partecipazione, del pieno diritto di ogni persona alla corretta informazione sui procedimenti amministrativi e sulle decisioni politiche, il metodo della programmazione concertata, il ruolo delle funzioni di controllo, nella piena distinzione delle competenze e dei poteri, sono valori che informano di sé tutta la nostra Costituzione. Ma essi si incarnano più specificatamente nell’articolo 4 sul diritto di cittadinanza (è coerente assegnare alla Regione la gestione delle quote di immigrati con provenienza extra-nazionale, se poi è la Regione anche il soggetto che determina i modi e le forme di acquisizione della cittadinanza) e nella proposta per l’istituzione del Consiglio delle Autonomie e della Conferenza Regionale per la programmazione economica e sociale. Con l’istituzione del Consiglio e della Conferenza, la Regione assume fino in fondo la prospettiva di riforma istituzionale inaugurata dalle cosiddette “Bassanini” e procede oltre, per certi versi anche sollecitando coraggiose iniziative riformatrici che andranno naturalmente assunte a livello parlamentare. Le competenze della Regione sono integrali quando allo Stato può essere sottratto tutto: potere ordinamentale, legislativo, amministrativo e giurisdizionale. Più spesso, invece, si tratta di fissare termini precisi di cooperazione tra la Regione e livelli istituzionali superiori (Unione Europea, Stato) o con le Autonomie locali territoriali. Sono innovazioni importanti:

-              le attribuzioni di politica estera con i vincoli tipici di ogni Stato federale;

-              le politiche per l’immigrazione, assegnate alla Regione correlativamente -all’istituzione di una cittadinanza “regionale”;

-              la previdenza sociale integrativa;

-              la sicurezza territoriale;

-              la titolarità del demanio con i poteri di esproprio per pubblica utilità;

-              le funzioni gestionali, amministrative e organizzative per i grandi servizi alla popolazione (sanità, scuola, formazione professionale);

-              le politiche di sviluppo.

                La centralità delle Autonomie locali si connota per l’assegnazione di poteri originari e non derivati; l’assegnazione al Consiglio delle Autonomie del potere di fissare i fabbisogni finanziari degli Enti locali; la costruzione dal basso del processo decisionale; la flessibilità dei poteri degli enti intermedi.

La nostra proposta affronta anche altri problemi che l’esperienza politico-amministrativa della Regione, in seguito alla legge di riforma costituzionale n. 1/1999, ha evidenziato. In particolare, risulta rafforzato il ruolo del Consiglio regionale, senza che ciò indebolisca quello del Presidente. Questo rafforzamento deriva essenzialmente dall’istituzione delle Autorità indipendenti di garanzia, secondo un modello che vige in altre grandi esperienze democratiche.

Sempre sul modello di altre Costituzioni democratiche, proponiamo l’elezione congiunta al Presidente di un Vicepresidente. La funzionalità di una tale proposta ci sembra indubitabile. Riteniamo, in conclusione, che nella nostra proposta di Costituzione possano riconoscersi tutte le correnti autentiche del federalismo veneto, di un federalismo impegnato finalmente e responsabilmente ad unire le diverse realtà del Paese non ad aggravarne divisioni e contraddizioni. Riteniamo che la nostra possa essere la Costituzione di tutte le realtà associative autonome della Regione, di tutti gli Enti locali, ma anche espressione della ricerca di un nuovo equilibrio, all’interno della Regione, tra Legislativo ed Esecutivo, senza che tale ricerca comporti i vizi tradizionali di una “democrazia” fatta di poteri di veto e di interdizione.


COSTITUZIONE DEL VENETO

TITOLO I CAPO I - I principi

Art. 1 - L’autonomia. Il Veneto è Regione autonoma secondo i principi e le garanzie della Costituzione Italiana, della presente Carta, nell’unità della Repubblica e nell’ambito dell’Unione Europea. La Regione Veneto è una federazione di autonomie, costituita dai Comuni, dalle Province e dalle Città Metropolitane. Il Veneto fa propria la Carta dei Diritti dell’Unione Europea. Capitale del Veneto è Venezia.

Art. 2 - La sussidiarietà. La Regione riconosce l’autogoverno delle Comunità che costituiscono il popolo veneto sulla base del principio di sussidiarietà. La Regione, in applicazione del principio di sussidiarietà, conferisce tutte le funzioni e i compiti, che non attengono ad esigenze unitarie per la collettività ed il territorio regionali, ai Comuni, alle Province e alle Città Metropolitane, sulla base dei principi di differenziazione e adeguatezza. A questo conferimento di funzioni e compiti sovraintende esclusivamente la ricerca dei livelli ottimali di esercizio, come definiti dalla legge. La Regione riconosce e valorizza l'autonoma iniziativa dei cittadini singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale.

Art. 3 - L’autogoverno.  La Regione come insieme di Comunità originarie si fonda sul principio dell’autogoverno.L’autogoverno del popolo veneto si attua in forme rispondenti alle caratteristiche e tradizioni della sua storia, secondo i valori fondamentali della libertà, della pari dignità sociale ed eguaglianza delle persone, per la promozione della famiglia, nel segno della solidarietà e della tolleranza, nel riconoscimento del valore dell’istruzione, del lavoro e dell’intraprendere. Il pluralismo istituzionale si fonda sulla pari dignità e rilevanza di tutti i cittadini e delle loro autonome formazioni sociali. Il pluralismo sociale e istituzionale concorre ad esprimere le diverse forme del potere pubblico ai fini della realizzazione dell’interesse generale.

Art. 4 – La cittadinanza veneta. Sono cittadine e cittadini della Regione autonoma del Veneto tutti coloro che vi risiedono. L’acquisizione della cittadinanza da parte di persone di provenienza extracomunitaria avviene di norma dopo cinque anni di residenza continuativa nel territorio nazionale in regola con tutte le prescrizioni di legge. A ogni cittadina e cittadino viene garantito il pieno godimento dei diritti civili e politici e richiesto il pieno rispetto dei doveri e degli obblighi da essi derivanti. La Regione garantisce alle persone, alle famiglie e alle comunità locali, nel proprio territorio, la piena fruizione dei diritti e delle libertà loro riconosciuti dall’Unione Europea e dalla Repubblica Italiana. Le leggi, i regolamenti ed ogni atto degli Organi Regionali renderanno pertanto effettivi tali diritti e promuoveranno gli ambiti di libertà.

Art. 5 - La valorizzazione delle differenze. La Regione riconosce e protegge le diverse identità storico-culturali che abitano il suo territorio. Ne valorizza pertanto i patrimoni linguistici, tutelando le diversità etniche e impegnandosi contro ogni forma di discriminazione tra generi, generazioni e genti.

Art. 6 - Il territorio bene universale. Il Veneto vede riunite nel proprio territorio tutte le categorie di ecosistemi terrestri ed acquatici: dal mare alla laguna, dalla campagna alla montagna, alla foresta, dal fiume al lago. Il territorio della Regione costituisce una risorsa universale da proteggere e valorizzare in tutte le sue componenti ambientali, paesaggistiche, urbanistiche, architettoniche, storico-culturali. Esso, come bene universale, costituisce il fondamento di un patto di solidarietà indivisibile con le generazioni future.

Art. 7 - L’informazione. La Regione tutela il più ampio pluralismo dei mezzi d’informazione come presupposto dell’esercizio della democrazia. La Regione garantisce la trasparenza dell’esercizio di ogni forma del potere pubblico e l'accesso di ogni cittadina e cittadino a conoscenze e servizi fondamentali ai fini della convivenza civile. La Regione tutela il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento amministrativo che possa recargli pregiudizio. La Regione garantisce il diritto di ogni persona al riconoscimento da parte dell’Amministrazione dei danni ingiustamente cagionati nell’esercizio delle sue funzioni. La Regione riconosce e garantisce nel suo territorio il diritto ad essere informati sulle condizioni e sulla qualità dell’ambiente, sui rischi derivanti dall’esercizio di attività economica o dall’esecuzione di opere pubbliche o private, sui rischi sanitari e, in generale, su ogni situazione di pericolo che possa ad essi derivare da attività incidenti sul loro territorio. La legge regionale armonizza il diritto di informazione con la garanzia della privacy e del segreto industriale.

Art. 8 - La partecipazione e la concertazione. La Regione assicura la più ampia partecipazione popolare all’attività dei propri organi. La Regione garantisce procedure di partecipazione alle decisioni pubbliche, a tutti i livelli istituzionali e a tutte le autonomie funzionali e sociali che in essa si riconoscono. La partecipazione al procedimento amministrativo è disciplinato dalla legge e dai regolamenti regionali. La Regione nell’esercizio delle proprie funzioni e competenze adotta il metodo della partecipazione concertata. L’amministrazione regionale concorre a realizzare un efficiente sistema delle autonomie a servizio dello sviluppo economico, sociale e civile del Veneto.

Art. 9 - La tutela dei consumatori. La Regione tutela il consumatore e gli utenti dei servizi, promuovendo iniziative che favoriscano lo sviluppo delle loro associazioni, garantendo la partecipazione delle stesse ai procedimenti amministrativi in materia di controllo della qualità, di prezzi e tariffe. Le Autorità indipendenti di garanzia istituite dalla Regione sono referenti per l’attività di monitoraggio, di controllo e di sanzione amministrativa.

Art. 10 - I diritti delle generazioni future. Il Veneto riconosce nelle generazioni future un soggetto titolare di diritti, in particolare il diritto di disporre di un territorio e di un ambiente ricchi di risorse, non compromessi nel loro ciclo vitale, rispettosi di ogni specie.

 

Capo II - Finalità istituzionali generali

Art. 11 - Il patto federativo. Il metodo fondamentale per la realizzazione dell’autogoverno è il patto federativo. Esso si stipula tra cittadini sovrani liberamente associati, tra cittadini e istituzioni che concorrono insieme alla realizzazione delle politiche pubbliche secondo il principio di sussidiarietà e nel pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza e della libertà delle autonomie territoriali, funzionali e sociali, tra le diverse forme istituzionali del potere pubblico che cooperano per la realizzazione della personalità umana in tutte le sue componenti, materiali e morali.

Art. 12 - Gli obiettivi generali. Le attività istituzionali della Regione hanno i seguenti obiettivi:

- la Regione promuove azioni in favore dell’affermazione dei diritti della persona, della famiglia e per le pari opportunità; favorisce il volontariato e l’associazionismo come pratiche per la realizzazione della coesione sociale;

- la Regione persegue uno sviluppo che si fonda su criteri qualitativi quali la promozione dell’autonomia e della responsabilità della persona, la sostenibilità ambientale, la trasparenza e la legalità dei sistemi concorrenziali, la tutela del consumatore, la ricerca e l’innovazione tecnologica;

- la Regione sostiene le attività produttive che sono in sintonia con le vocazioni del territorio;

- la Regione opera per rendere effettivi i diritti allo studio, anche operando per elevare l’età dell’obbligo scolastico a diciotto anni, al lavoro e alla formazione permanente. Promuove negli ambiti di propria competenza tutte le azioni che consentono la diffusione delle attività di ricerca e una formazione tecnica, scientifica e culturale completa e costantemente aggiornata;

- la Regione opera per una cultura della pace e della cooperazione internazionale, al fine di ridurre gli squilibri economici e sociali, nel pieno rispetto delle differenze etniche, storiche e religiose.

Art. 13 - I rapporti Stato-Regione. La Regione autonoma del Veneto informa i propri rapporti con lo Stato al principio cooperativo. I rapporti tra la Regione e lo Stato sono disciplinati dalla Costituzione della Repubblica e dalle leggi che da questa discendono. Le materie concorrenti sono individuate e disciplinate dalla Costituzione. Nell’esecuzione della legislazione statale, nella cooperazione tra livelli istituzionali diversi e nella determinazione del fabbisogno finanziario della Regione vale la procedura dell’intesa federativa. La Regione, per il pieno raggiungimento dei suoi obiettivi, persegue il fine di assicurarsi forme e condizioni ulteriori di autonomia, anche su materia di competenza dello Stato, secondo le forme previste dalla Costituzione della Repubblica.

Art. 14 - I rapporti Regione-Autonomie. La Regione riconosce come componente fondamentale dell’autogoverno, inteso come patto federativo, il concorso di tutte le autonomie che rappresentano l’interesse generale nel territorio: istituzioni locali, autonomie sociali, autonomie funzionali. Il Consiglio delle Autonomie locali è strumento e luogo di raccordo e concertazione permanente per la realizzazione di forme di cooperazione, collaborazione e azione coordinata tra Regione ed Enti locali. La Conferenza regionale per la programmazione economica e sociale è sede di raccordo tra gli strumenti di indirizzo programmatico e le autonomie funzionali, le parti sociali e il terzo settore.

Art. 15 - Le competenze della Regione. La Regione, così come rivendica a sé tutte le funzioni che non richiedono per loro natura di essere svolte a livello dello Stato centrale, si impegna a trasferire alle istituzioni più vicine ai cittadini tutte quelle funzioni che non richiedono l'unitario esercizio a livello regionale.

Compiti della Regione sono in particolare:

- la programmazione dello sviluppo sociale ed economico;

- la rappresentanza presso l'Unione europea e altri organismi statuali o regionali esteri; la titolarità di accordi interregionali, sia interni che esterni alla Repubblica federale italiana, per la soluzione di problemi comuni; la ratifica di tali accordi avviene previa autorizzazione del Parlamento italiano; il governo della Regione Veneto sarà informato sui trattati internazionali della Repubblica italiana di suo specifico interesse;

- la pianificazione territoriale, ambientale, la tutela e la valorizzazione degli ecosistemi, del paesaggio, delle risorse naturali e del patrimonio storico-artistico; la titolarità del demanio pubblico e del potere di esproprio per realizzare opere di protezione civile, sicurezza e pubblica utilità;

- l’ordinamento degli Enti locali fatto salvo quanto la Costituzione riserva alla legislazione statale;

- l’indirizzo e il coordinamento per la gestione locale dei servizi alla persona e gli standard minimi della protezione sociale;

- la previdenza sociale integrativa;

- le politiche per l'immigrazione;

- l’ordinamento, la programmazione e l’amministrazione del sistema sanitario con il rispetto obbligatorio degli standard universali minimi fissati dallo Stato;

- l’ordinamento e l’amministrazione della scuola e dell’istruzione, fatti salvi l’autonomia e il quadro di norme generali previsti dallo Stato per l’intero territorio nazionale;

- l’ordinamento e l’amministrazione della formazione professionale, della formazione permanente e dei rapporti scuola-lavoro;

- l’ordinamento e l’amministrazione della sicurezza territoriale con l’indirizzo e il coordinamento dei corpi di polizia municipale;

- le politiche economiche e del lavoro, dall’industria all’artigianato, dal turismo all’agricoltura, dal commercio ai servizi, con l'indicazione delle funzioni su cui interviene in forma c concorrente lo Stato;

- le competenze attinenti servizi e infrastrutture di interesse regionale e locale;

- ogni altra competenza non rientrante nei poteri esclusivi dello Stato.

Art. 16 - Rapporti Regione-Unione europea.

La Regione, in ordine alle materie di sua esclusiva competenza, partecipa alle decisioni degli Organismi Comunitari.

Art. 17 - Il federalismo fiscale. La Regione e i Comuni sono dotati di autonomia finanziaria e tributaria sulla base dell'esigenza di un collegamento trasparente tra rappresentanza e tassazione. La Regione Autonoma del Veneto fonda su un patto con lo Stato la propria autonomia tributaria. L’articolazione del patto fiscale viene stabilita all’inizio di ciascuna legislatura regionale in un negoziato fra Regione e Governo, con riferimento sia al gettito dei tributi erariali nazionali riscossi nel Veneto sia al reddito prodotto nel Veneto. Il suo contenuto forma oggetto specifico di legge approvata dal Parlamento. Allo scopo di adeguare le finanze degli Enti locali del Veneto al raggiungimento delle finalità e dell’esercizio delle funzioni loro attribuite, il negoziato e il patto che lo conclude devono indicare la quota di compartecipazione devoluta agli stessi. Il negoziato deve prevedere il rispetto del vincolo statale in materia di perequazione delle risorse da indirizzare verso le aree svantaggiate. La legge regionale di bilancio rispetta gli impegni di carattere comunitario fissati con il patto di stabilità.

Art. 18 - L’autonomia finanziaria. La Regione ha un bilancio, un demanio e un patrimonio propri. La Regione può stabilire imposte e tasse nelle materie di propria competenza, piena, concorrente e trasferita. Le entrate della Regione sono costituite da tasse proprie, da compartecipazioni ai tributi statali, da trasferimenti dello Stato e dell’Unione Europea. I tributi regionali propri e derivati finanziano i servizi alle persone, le infrastrutture di rilevanza regionale e locale, gli interventi di politica economica. I beni demaniali non utilizzati dallo Stato e dalla Regione per l'esercizio di funzioni proprie sono assegnati ai Comuni. Nel caso di beni non alienabili si trasferiscono ai Comuni i diritti di utilizzo e concessione. Viene raggruppato in un'unica voce il tributo locale immobiliare.  La Regione istituisce un fondo di riequilibrio regionale per interventi differenziati di sostegno di peculiari realtà e situazioni.

 

TITOLO II - Le funzioni regionali

Art. 19 - La funzione legislativa. La Regione ha pienezza di competenza legislativa in tutte le materie che la Costituzione e le leggi costituzionali non riservino alle competenze esclusive dello Stato.  La Regione detiene l’insieme di funzioni di programmazione, di indirizzo e di controllo che interessano l’intero territorio di sua competenza.  La Regione cura l’esecuzione nel proprio territorio delle competenze legislative in capo allo Stato. La Regione demanda tutti i compiti gestionali ai Comuni, agli Enti costituiti da questi con patti federativi e ai corpi sociali.

Art. 20 - La funzione amministrativa. Il Comune è titolare delle funzioni amministrative che gli sono conferite dalle leggi dello Stato e della Regione. Le Province, le Città Metropolitane, la Regione esercitano esclusivamente quelle funzioni amministrative che, secondo il principio di sussidiarietà sono utili ad assicurare l’esigenza di unitarietà, senza duplicazione di funzioni e con l’individuazione delle rispettive responsabilità. L’assunzione di funzioni amministrative da parte di altri livelli di governo locale è deliberata dal Consiglio regionale con il concorso del Consiglio delle Autonomie. La Giunta regionale cura gli atti amministrativi che rendono esecutive le disposizioni della legislazione regionale, che già non prevedano la ripartizione delle funzioni amministrative. Per le materie e funzioni che sono espressamente di sua competenza, la Giunta regionale affida la gestione alle autonomie locali, riservandosi il potere di indirizzo e di coordinamento, il potere di controllo del rispetto degli standard minimi, il potere sostitutivo nei casi di inadempienza. La Regione garantisce una gestione efficiente, efficace e democratica di tutti i servizi pubblici effettuati nel suo territorio. Per i servizi pubblici la cui gestione spetti ad altri soggetti pubblici, privati o del privato-sociale, la Regione assicura un’azione di monitoraggio e controllo.

Art. 21 - L’ordinamento dei poteri locali. La Regione riconosce il carattere originario dell’autonomia dell’Ente locale. La Regione ha competenza legislativa e amministrativa sull’ordinamento degli Enti locali, fatte salve la legislazione elettorale, la determinazione delle funzioni e degli organi di governo degli stessi e la loro autonomia statutaria. In ordine alle funzioni esercitate dai Comuni, dalle Province, dalle Città Metropolitane o altri enti intermedi, la Regione emana atti di indirizzo e coordinamento finalizzati ad assicurare sull’intero territorio regionale requisiti essenziali di qualità e di omogeneità nell’organizzazione dei servizi e nell’esercizio delle funzioni, il conseguimento di obiettivi unitari, anche rispondenti a interessi sovracomunali, il rispetto dei vincoli di bilancio. Gli atti degli Enti locali non sono sottoposti a controlli preventivi di legittimità o di merito.

Art. 22 - Gli enti intermedi. Forme di collaborazione istituzionale tra i comuni. Sulla base di accordi tra le comunità interessate, i Comuni realizzano forme associative atte a perseguire dimensioni ottimali per l'efficienza dell'amministrazione e la qualità dei servizi. A tale scopo sono costituite Comunità Montane e Unioni di Comuni che individuano le dimensioni territoriali più idonee a gestire le funzioni di carattere sovracomunale, in modo unitario ed efficace.  È istituita con poteri speciali la Provincia Autonoma di Belluno, in quanto unica Provincia della Regione tutta montana, confinante sia con Stato estero, sia con due Regioni a Statuto Speciale. È istituita la Città Metropolitana di Venezia, che acquisisce, nell’ambito del suo territorio, competenze e poteri della Provincia.

Art. 23 - Le funzioni e i compiti delle province e della città metropolitana. Province e Città Metropolitane esercitano la generalità delle funzioni di pianificazione territoriale e di programmazione economico-sociale relative al proprio territorio. Esercitano altresì funzioni amministrative di tipo gestionale in ragione della loro rilevanza sovracomunale o provinciali. Al fine di favorire la cooperazione, il coordinamento delle iniziative e l’impegno integrato delle risorse finanziarie, gli Enti locali promuovono, anche d’intesa con la Regione, attività di programmazione negoziata per la realizzazione di interventi di area vasta. Sono assegnati a detti Enti, previa intesa con la Regione, tutti i compiti gestionali relativi all’attuazione nell’ambito dei rispettivi territori di iniziative finanziate dall’Unione Europea.

Art. 24 - Le competenze degli Enti locali. Ai Comuni singoli e associati spettano tutte le competenze rispondenti alla piena attuazione dei principi di autonomia e di sussidiarietà. Da tale riconoscimento deriva un Ente locale dotato di piena autonomia amministrativa, finanziaria, tributaria, organizzativa. La Regione riconosce a Province, Comuni e Città Metropolitane il diritto di associarsi con Enti locali di altre Regioni o Stati, a condizione che tali accordi non compromettano interessi e obiettivi delle Province e dei Comuni veneti non coinvolti. Sono competenze degli Enti locali territoriali:

- la promozione della cultura locale ivi compresi archivi, musei, biblioteche;

- la toponomastica di interesse locale;

- la pianificazione urbanistica;

- la pianificazione commerciale, i mercati e la disciplina delle autorizzazioni;

- turismo, agriturismo, attività ricettive;

- edilizia abitativa;

- viabilità e lavori pubblici di interesse locale e relative espropriazioni per pubblica utilità;

- trasporti pubblici locali;

- portualità di interesse locale e turistico;

- assistenza e sicurezza sociale;

- scuole materne, assistenza scolastica e edilizia scolastica;

- polizia urbana, locale e rurale;

- ogni altra competenza non rientrante nei poteri esclusivi della Regione e degli enti intermedi.

Art. 25 - Le funzioni del Consiglio delle Autonomie. Il Consiglio delle Autonomie locali è organo permanente di partecipazione degli Enti locali della comunità veneta alla definizione dei rapporti tra Regione ed autonomie locali e funzionali. Il Consiglio delle Autonomie può esprimersi su tutti gli atti fondamentali della Regione. Il Consiglio delle Autonomie si esprime obbligatoriamente entro tre mesi dalla loro presentazione sugli atti di programmazione e sulle leggi di competenza del Consiglio regionale, riguardanti i rapporti tra Regione e Autonomie locali. Il Consiglio regionale acquisisce il parere del Consiglio delle Autonomie prima della loro definitiva approvazione. Il Consiglio delle Autonomie delibera ogni anno in prima istanza la determinazione del fabbisogno finanziario degli Enti locali, la cui approvazione definitiva spetta al Consiglio regionale. Il Consiglio delle Autonomie propone entro sei mesi dalla presentazione delle proposte deliberate dagli stessi, l’ordinamento territoriale degli Enti locali. Il Consiglio delle Autonomie Locali ha il compito di dirimere le controversie tra Regione, Enti locali e autonomie funzionali per questioni e compiti attribuiti dalla Regione. Le sue decisioni sono assunte a maggioranza dei componenti assegnati e sono vincolanti per le parti. Ogni membro del Consiglio delle Autonomie ha potere di iniziativa legislativa. Il Consiglio delle Autonomie è obbligatoriamente consultato nel processo di revisione del presente Statuto.

Art. 26 - La Conferenza regionale per la programmazione economica e sociale. La Conferenza è organo di carattere consultivo. Ne fanno parte rappresentanze delle autonomie funzionali, delle categorie sociali, dei sindacati e del terzo settore. Si riunisce in due sessioni annuali per formulare proposte e indirizzi per il Documento generale di programmazione della Regione e la Legge Finanziaria e per il Documento di valutazione sulle realizzazioni programmate e il Bilancio consuntivo. La sua convocazione spetta al Presidente del Consiglio regionale e, in caso di inadempienza, al Presidente della Regione.

TITOLO III - Organi della Regione

Art. 27 - Organi della Regione. Sono organi della Regione: a) il Consiglio regionale; b) la Giunta regionale; c) il Presidente della Giunta regionale; d) il Consiglio delle Autonomie.

Art. 28 - Il Consiglio regionale. Il Consiglio regionale svolge per competenza esclusiva le funzioni legislative e le funzioni di indirizzo e controllo previste nella presente Carta. Il Regolamento del Consiglio può stabilire in quali casi e forme l’approvazione dei disegni di legge sia attribuita alle Commissioni consiliari, composte in modo da rispecchiare la proporzione dei Gruppi consiliari, salva la possibilità da parte di un decimo dei componenti del Consiglio di richiederne la discussione e il voto in Assemblea plenaria. Nella sua prima riunione il Consiglio regionale procede all’elezione dell’Ufficio di Presidenza, costituito dal Presidente, da due Vicepresidenti e da due Segretari, in modo che venga assicurata la presenza della minoranza. Il Consiglio regionale può revocare il Presidente del Consiglio, i Vicepresidenti, i Segretari, congiuntamente o separatamente, a seguito dell’approvazione di una mozione di sfiducia che deve essere sottoscritta da almeno un terzo dei Consiglieri assegnati, discussa dal Consiglio regionale non prima di dieci e non oltre quindici giorni dalla data di presentazione, e votata per appello nominale a maggioranza assoluta dei voti dei Consiglieri assegnati. Il Consiglio regionale vota a maggioranza assoluta dei suoi membri il programma del Presidente presentato nella seduta di insediamento dopo le elezioni. Il consigliere regionale non ha vincolo di mandato. Lo status del consigliere regionale prevede l’incompatibilità con la carica di Ministro, Parlamentare nazionale, parlamentare europeo, componente di organo esecutivo ed elettivo di ente intermedio, componente di organo esecutivo ed elettivo di Ente locale.

Art. 29 - Potere di autorganizzazione del Consiglio regionale. Il Consiglio regionale ha autonomia organizzativa e, nell’ambito dello stanziamento assegnato in bilancio, autonomia amministrativa e contabile, che esercita a norma dello Statuto e del regolamento. Il Consiglio regionale ha propri uffici, dei quali si avvalgono l’Ufficio di Presidenza, le commissioni e i gruppi consiliari. Il personale addetto al Consiglio regionale è inserito in ruolo organico autonomo. Lo stato giuridico e il trattamento economico sono disciplinati sulla base della legge regionale, tenendo conto della specificità e peculiarità delle funzioni svolte.

Art. 30 - La Giunta regionale. Viene nominata dal Presidente e si compone di membri indicati al di fuori del Consiglio regionale. Tali membri devono avere le caratteristiche di compatibilità indicate all’articolo 28. Le attribuzioni della Giunta regionale sono relative all’esecuzione amministrativa della legislazione trasferita dallo Stato e deliberata dal Consiglio regionale. Esercita i poteri di indirizzo e di coordinamento, e i poteri sostitutivi nei casi previsti dalla legislazione regionale. I membri della Giunta sono responsabili collegialmente degli atti della Giunta stessa, e individualmente degli atti dei loro assessorati.

Art. 31 - Il Presidente. Il Presidente della Regione dirige la politica generale della Regione e ne è responsabile. Coordina unitariamente tutta la produzione di atti di governo e amministrativi di competenza della Giunta. Partecipa con diritto di voto alle riunioni del Consiglio dei Ministri della Repubblica, quando questo tratta materie di interesse diretto della Regione Veneto. Può attribuire competenze e funzioni che gli spettano per legge agli Assessori. Il Presidente della Regione può essere eletto per non più di due mandati consecutivi.

Art. 32 - Il Consiglio delle Autonomie. Fanno parte del Consiglio delle Autonomie i Presidenti delle Province e delle Città Metropolitane; i Sindaci dei Comuni Capoluogo; Sindaci autonomamente designati in numero di dieci per i Comuni sotto i 15.000 abitanti e dieci per i Comuni sopra i 15.000 abitanti; venti consiglieri provinciali e comunali autonomamente designati. Il Consiglio delle Autonomie si dota di un proprio Regolamento che adotta a maggioranza assoluta dei propri membri.

Art. 33 - L’iniziativa legislativa. L’iniziativa delle leggi spetta ad ogni Consigliere regionale e ad ogni membro del Consiglio delle Autonomie, ad ogni Consiglio provinciale, alle Città Metropolitane, ad ogni Coniglio di Comune capoluogo di provincia, ai Consigli comunali in numero non inferiore a cinque. Il popolo veneto esercita l’iniziativa delle leggi mediante la presentazione di proposte, redatte in articoli e sottoscritte da almeno 5.000 elettori. Le proposte di legge di iniziativa popolare non decadono con la fine della legislatura.

Art. 34 - Il sistema elettorale. Nel rispetto dei principi di democraticità, rappresentatività e stabilità di governo, la Regione delibera la propria legge elettorale a maggioranza assoluta dei componenti dell’Assemblea regionale. Il Presidente della Regione e il Vicepresidente sono eletti a suffragio diretto e congiuntamente. Il Presidente ed il Vicepresidente fanno parte del Consiglio regionale. Il Vicepresidente assume le responsabilità del Presidente in caso di impedimento o di decesso di quest’ultimo.  Il sistema elettorale consiste nel turno unico con premio di maggioranza. Nelle liste che si presentano alla competizione elettorale dovrà essere garantita la presenza del cinquanta per cento di ognuno dei due sessi.

Art. 35 – Referendum. Le leggi regionali disciplinano le modalità di svolgimento dei referendum popolari, anche di carattere propositivo, determinandone le materie in cui sono ammessi.

Art. 36 - Le Autorità indipendenti di garanzia. Sono istituite mediante apposite leggi che ne fissano i compiti, gli ambiti di azione, i modelli organizzativi e procedimentali, nonché le risorse i mezzi e il personale. Tali Autorità dispongono di potere normativo, amministrativo e, definito l’ambito giurisdizionale di propria competenza, di risoluzione di conflitti e di sanzione amministrativa.

a) L’Ufficio del Difensore Civico interviene nel campo della tutela dei diritti individuali. Esso può inoltre svolgere compiti specifici e autonomi di controllo sull’efficienza e sull’equità delle politiche regionali di contrasto dell’esclusione sociale, di sostegno alle famiglie, di promozione della salute e dell’assistenza, avvalendosi anche dell'Autorità di cui al punto b).

b) È istituita un'Agenzia di vigilanza tecnico-economica a disposizione del Consiglio regionale sull’attività della Giunta e degli Assessorati, nonché degli organismi, enti a partecipazione regionale, che promanano da leggi regionali, che siano istituiti dalla Giunta, ovvero da questa prendono direttive.

c) È istituita l’Autorità di garanzia e controllo per l’informazione le cui funzioni sono determinate con specifico provvedimento legislativo.

d) È istituito il Comitato Tecnico per la legislazione e la fattibilità delle leggi regionali.

Art. 37 - Revisione della Costituzione veneta. L’iniziativa di modifica della Costituzione veneta spetta al Presidente, a un quinto almeno dei Consiglieri regionali, alle Province, ai Comuni e alle Città Metropolitane nonché a legge d’iniziativa popolare. La modifica viene deliberata con maggioranza qualificata di due terzi dei membri del Consiglio regionale aventi diritto al primo scrutinio. Dopo novanta giorni, la modifica viene deliberata a maggioranza assoluta degli assegnati.

Art. 38 - Norme transitorie e adeguamento della legislazione vigente. La Regione adegua la legislazione vigente alle norme della Carta Statutaria entro il 31 dicembre 2003. A tal fine promuove la massima semplificazione legislativa assumendo quale principio ispiratore l’elaborazione di Testi Unici normativi organizzati per materie omogenee.

 

INDICE [con numero di pagina]

 

TITOLO I    5

 

CAPO I - I principi 5

Art. 1 - L’autonomia.      5

Art. 2 - La sussidiarietà. 5

Art. 3 - L’autogoverno.  5

Art. 4 - La cittadinanza veneta.  5

Art. 5 - La valorizzazione delle differenze.  6

Art. 6 - Il territorio bene universale. 6

Art. 7 - L’informazione. 6

Art. 8 - La partecipazione e la concertazione.     6

Art. 9 - La tutela dei consumatori.            7

Art. 10 - I diritti delle generazioni future. 7

 

CAPO II - Finalità istituzionali generali    7

Art. 11 - Il patto federativo. 7

Art. 12 - Gli obiettivi generali.    7

Art. 13 - I rapporti Stato-Regione.           8

Art. 14 - I rapporti Regione-Autonomie. 8

Art. 15 - Le competenze della Regione. 8

Art. 16 - Rapporti Regione-Unione europea. 9

Art. 17 - Il federalismo fiscale.   9

Art. 18 - L’autonomia finanziaria. 9

 

TITOLO II - Le funzioni regionali 10

 

Art. 19 - La funzione legislativa. 10

Art. 20 - La funzione amministrativa. 10

Art. 21 - L’ordinamento dei poteri locali.   10

Art. 22 - Gli enti intermedi. Forme di collaborazione istituzionale tra i comuni.   11

Art. 23 - Le funzioni e i compiti delle province e della città metropolitana.  11

Art. 24 - Le competenze degli Enti locali.   11

Art. 25 - Le funzioni del Consiglio delle Autonomie.  12

Art. 26 - La Conferenza regionale per la programmazione economica e sociale.  12

TITOLO III - Organi della Regione  13

Art. 27 - Organi della Regione.   13

Art. 28 - Il Consiglio regionale.   13

Art. 29 - Potere di autorganizzazione del Consiglio regionale.      13

Art. 30 - La Giunta regionale.     14

Art. 31 - Il Presidente.   14

Art. 32 - Il Consiglio delle Autonomie.    14

Art. 33 - L’iniziativa legislativa.   14

Art. 34 - Il sistema elettorale.     14

Art. 35 – Referendum.  15

Art. 36 - Le Autorità indipendenti di garanzia.     15

Art. 37 - Revisione della Costituzione veneta.     15

Art. 38 - Norme transitorie e adeguamento della legislazione vigente.    15

 




 


Il federalismo di Cattaneo spiegato da Gaetano Salvemini

Introduzione del volume Le più belle pagine di Carlo Cattaneo scelte da G. Salvemini, Milano, Treves, 1922, pp. I-XXXI, da G. Salvemini, Scritti sul Risorgimenti a c. di Piero Pieri e Carlo Pischedda, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 385-387

Cattaneo «nel gennaio del 1860 riprese la pubblicazione del Politecnico, con lo stesso programma dell’antico: “adombrare in agevoli forme i più nuovi pensamenti della scienza, e porgere pratico lume ai promotori della patria coltura e prosperità” (C. Cattaneo, Scritti politici ed epistolari, a c. di G. Rosa e J. White Mario, ed. Barbèra, 1892-1901, vol. II, pp. 263-264). […] I “pensieri dominanti” in questa nuova attività di pubblicista sono due: il federalismo amministrativo e la nazione armata.

 Il federalismo è l’ordinamento politico, a cui ricorrono i popoli che vogliono nello stesso tempo assicurare la indipendenza politica di ciascuno contro ogni ingerenza straniera, e mantenere nei rapporti reciproci la eguaglianza dei diritti e le originalità locali.

L’accentramento amministrativo, in un grande Stato, non può funzionare senza che si formi una numerosa burocrazia: e questa sarà portata per necessità di cose a costituirsi in casta dominante. Il paese che si sarà affidato incauto ad una burocrazia accentrata, credendola necessaria alla unità nazionale, si illuderà di essere libero, se avrà accanto alla burocrazia un parlamento elettivo. Ma un controllo efficace dei deputati sull’opera giornaliera di una burocrazia numerosa non sarà possibile mai. Inoltre i deputati di un parlamento unico non possono avere la competenza necessaria per risolvere problemi di amministrazione, di rapporti economici, di contratti agrari, di diritto familiare, ecc., i quali variano profondamente dall’una all’altra regione: la difficoltà è massima in un paese così vario come l’Italia: che cosa può capire un piemontese o un lombardo di ciò che può essere necessario a sistemare difficoltà speciali della Sardegna e della Sicilia? […]

Il governo federale, invece, a tipo svizzero o americano, affida agli uffici centrali le sole funzioni politiche d’interesse nazionale, e così riduce al minimo la burocrazia della capitale, e permette su di essa un reale controllo del parlamento centrale; conserva alle amministrazioni locali, più vicine agli interessati, tutta la direzione della vita locale, e permette così che tutti gli affari locali siano definiti direttamente dagli organi locali elettivi; e anche quelle pratiche, di cui è necessario far delega ai funzionari di carriera, rimangono sempre sotto la sorveglianza immediata degli interessati. Per questa via, si evita il sorgere in tutto il paese di una burocrazia incontrollabile e quindi irresponsabile, e si concilia la libertà degli individui e delle amministrazioni locali, con la necessità di garantire per mezzo della unità nazionale, la libertà di tutti contro ogni prevaricazione straniera.

Ed è questa la via per evitare, fra le diverse parti della stessa nazione, i contrasti indecorosi e pericolosi del dare ed avere: perché nelle assemblee le maggioranze sono sollecite solo di se stesse; e in un’unica assemblea nazionale che invada il campo degl’interessi locali, avverrà sempre che gl’interessi locali degli uni saranno sacrificati agl’interessi locali degli altri, nella grande concorrenza che tutti istituiranno intorno al bilancio dello Stato. Dove invece il governo centrale riduce al minimo le sue funzioni, ivi non si hanno sopraffazioni e non sorgono discordie. “La mia formula, - scrive a Francesco Crispi il 12 luglio 1860, - è Stati Uniti; se volete, Regni Uniti: l’idra di olti capi, che fa però una bestia sola. I siciliani potrebbero fare un gran beneficio all’Italia, dando all’annessone il vero senso della parola, che non è assorbimento. Congresso comune per le cose comuni; e ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha la casa sua, le cognate non fanno liti. Fate subito, prima di cadere in balìa d’un parlamento generale, che crederà fare alla Sicilia una carità, occupandosi di essa tre o quattro sedute all’anno. Vedete la Sardegna, che dopo dodici anni di vita parlamentare sta peggio della Sicilia” (C. Cattaneo, Scritti politici ed epistolari, a c. di G. Rosa e J. White Mario, ed. Barbèra, 1892-1901, vol. II, pp. 263-264).

L’idea di “decentrare l’amministrazione”, cioè di trasferire ad uffici governativi periferici le funzioni degli uffici governativi centrali, non trovava in Cattaneo nessun favore: […] Quel che occorreva, era impedire il formarsi della casta burocratica, creando il maggior numero possibile di autonomie legislative ed elettive locali, e trasferendo al parlamento nazionale i soli affari di vero interesse comune»

 

La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (Dal "Crepuscolo", nn. 42, 44, 50 e 52 dell'ottobre-dicembre 1858)

In un paragone tra l’economia rurale delle Isole Britanniche e dell’Insubria inserto in questi fogli sul cadere dello scorso anno, abbiamo dimostrato come l’alta cultura (high farming), essendo una precipua forma della moderna industria, una delle più grandi applicazioni del capitale, del calcolo, della scienza, ed effetto in gran parte d’un consumo artificialmente provocato dall’incremento delle popolazioni urbane, non si può spiegare se non per l’azione delle città sulle campagne. Ed ora, per quanto l’angustia dello spazio il consente, vorremmo ampliare questo vero fino al punto di dire che la città sia l’unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua. Senza questo filo ideale, la memoria si smarrisce nel labirinto delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e nell’assidua composizione e scomposizione degli stati; la ragione non può veder lume in una rapida alternativa di potenza e debolezza, di virtù e corruttela, di senno e imbecillità, d’eleganza e barbarie, d’opulenza e desolazione; e l’animo ricade contristato e oppresso dal sentimento d’una tetra fatalità. Fin dai primordii la città è altra cosa in Italia da ciò ch’ella è nell’oriente o nel settentrione. L’imperio romano comincia entro una città; è il governo d’una città dilatato a comprendere tutte le nazioni che circondano il Mediterraneo. La fede popolare derivò la città di Roma dalla città d’Alba; Alba da Lavinio, Lavinio dalla lontana Troia; le generazioni dei popoli apparvero alla loro mente generazioni di città. Non così nascono, nè così si rappresentano alle menti dei popoli, i regni di Ciro, di Gemscid, d’Attila, di Maometto, di Cinghiz-Khan, di Timur-Leng. Figli di tribù pastoreccie, vissuti sotto le tende, i conquistatori dell’Asia solo dopo le vittorie si fondano una sede di gloria e di voluttà in Babilonia, in Bagdad, in Delhi; le quali, come nota Herder, altro non sono che grandi accampamenti murati, ove l’orda conquistatrice raccoglie le prede della guerra e i tributi della pace. La prisca Europa fu dapprima un’immensa colonia dell’oriente, come in questi tre secoli l’America fu colonia dell’Europa. Ma per due vie, e con due ben diversi gradi di civiltà, qui pervennero le genti orientali. Le une peregrinarono lentamente per terra, tragittando al più l’uno o l’altro Bosforo, traendo seco dall’Asia, coi frammenti delle lingue e religioni indo-perse, la pastorizia e una vaga agricultura annua, senza fermi possessi privati, quasi senza città: per vicos habitant; talora senza villaggi: ne pati quidem inter se junctas sedes; in tugurii non murati: ne cœmentorum quidem apud illos aul tegularum usus; sovente in sotterranee caverne: solent et subterraneos specus aperire; eosque multo insuper fimo onerant, suffugium hiemi (Tac.). Vaganti per lo squallido settentrione in sempiterna guerra, e mescolate qua e là colle tribù aborigene dell’Europa selvaggia, esse apparirono poi barbare a quelli altri popoli che, oriundi pur dall’Asia, erano approdati navigando alle isole e penisole della Grecia, dell’Italia e dell’Iberia. Questi, uscendo dalle città dell’Egitto, della Fenicia, della Lidia, della Frigia, della Colchide, non pensavano poter vivere nella nuova patria se anzi tutto non consacravano a stabile domicilio uno spazio, urbs: e lo chiudevano con cerchio di valide mura, che il corso dei secoli non ha dovunque distrutte. Prima essi facevano le mura; e poi le case. E così fermati per sempre ad un lembo di terra, erano costretti ad assegnarlo con sacri termini ai cittadini, affinché questi avessero animo di fecondarlo con perseveranza e con arte. L’agricultura era provida e riflessiva, perché la dimora era immobile e il possesso era certo. Quelle colonie non erano mai d’uomini dispersi come le tribù arabe dell’Africa settentrionale, o i boers della meridionale, o i rancheros e i backwoodsmen dell’America. Col nome di colonia gli antichi Itali intendevano sempre che i popoli si propagassero d’una in altra città, riproducendo lo stabil vivere della patria: Colonia est coetus eorum hominum qui universi deducti sunt in locum certum aedificiis munitum (Serv.). Coloni sunt cives unius civitatis in aliam deducti, et ejus jure utentes a qua sunt propagati (Gell.). Ai nostri dì ancora, per tutto il settentrione, la famiglia possidente ama stanziar solitaria in mezzo alla sua terra: suam quisque domum spatio circumdat (Tac.). Quivi ha la sua casa paterna, non una villa di temporario diporto; non tiene palazzo nella città più vicina; non cura aver consorzio e parentela cogli abitanti di questa. Le città sono mercati stabili, vaste officine, porti alimentati da lontani commerci; non hanno altro vincolo colle terre circostanti che quello d’un prossimo scambio delle cose necessarie alla vita, non altrimenti che navi ancorate sopra lido straniero. In Italia il recinto murato fu in antico la sede Comune delle famiglie che possedevano il più vicino territorio. La città formò col suo territorio un corpo inseparabile. Per immemorial tradizione, il popolo delle campagne, benché oggi pervenuto a larga parte della possidenza, prende tuttora il nome della sua città, sino al confine d’altro popolo che prende nome d’altra città. In molte provincie è quella la sola patria che il volgo conosce e sente. Il nostro popolo, nell’uso domestico e spontaneo, mai non diede a sé medesimo il nome geografico e istorico di lombardo; mai non adottò famigliarmente quelle variabili divisioni amministrative di dipartimenti e di provincie, che trascendevano gli antichi limiti municipali. Il pastore di Val Camonica, aggregato ora ad uno ora ad altro compartimento, rimase sempre bresciano. Il pastore di Val Sàssina si dà sempre il nome d’una lontana città che non ha mai veduta, e chiama bergamasco il pastore dell’alpe attigua, mentre nessun agricultore si chiama parigino, nemmen quasi a vista di Parigi. Questa adesione del contado alla città, ove dimorano i più autorevoli, i più opulenti, i più industri, costituisce una persona politica, uno stato elementare, permanente e indissolubile. Esso può venir dominato da estranee attrazioni, compresso dalla forza di altro simile stato, aggregato ora ad una ora ad altra signoria, denudato d’ogni facoltà legislativa o amministrativa. Ma quando quell’attrazione o compressione per qualsiasi vicenda vien meno, la nativa elasticità risorge, e il tessuto municipale ripiglia l’antica vitalità. Talora il territorio rigenera la città distrutta. La permanenza del municipio è un altro fatto fondamentale e quasi comune a tutte le istorie italiane. I monumenti non rivelano peranco a qual tempo sia da riferirsi la prima fondazione delle città in Italia. Ma i monumenti egizj ci additano con data certa tre grandi rivolgimenti, che agitarono tutte quelle regioni da cui vennero ai nostri lidi i più antichi fondatori di città. Sono la spedizione d’Osimandia sino alle frontiere dell’India (A.C. 2500) e quella di Sesostri fino in Europa (1800); e fra l’una e l’altra l’irruzione dei pastori dalle regioni del Caspio all’Egitto (2000). Verso i tempi a cui si attribuisce la fondazione di Roma (750) l’Italia era già tutta seminata di città ben antiche. Ma esse appartenevano a più lingue e religioni, che si erano stabilite qua e là combattendo e si contendevano il terreno. Le città più grandi erano di più recente origine; erano le colonie greche, fra le quali Crotone poteva armare nel suo dominio centomila uomini; e Sibari poteva tenerle fronte; e le cinque Siracuse (Syracusae) nel loro complesso pareggiavano qualsiasi moderna capitale. Grandi erano pur quelle che sembrano d’origine quasi greca, ma contemporanea coi primordi della cultura greca, ed erano probabilmente pelasghe, come Cortona e Pisa; grandi pure le altre città nutrite da commercio marittimo, come le colonie fenicie, principalmente nelle isole. Gloriose per solida bellezza ci appaiono le ruine delle città degli Etruschi; ma lungo il Po forse la vita delle loro colonie fu troppo breve; appena lasciò vestigia di edificj; e a piè dell’Alpi, ove alcuni vanno imaginando le prime fonti di quella civiltà, lasciò appena qualche rozza pietra. Le città di tutti i popoli Umbri, Oschi, Sabelli erano assai minute; le trenta città dei Latini tenevano appena lo spazio che altrove ne occupa una sola: ciò proveniva forse dai riti delle loro religioni e dalle regole della loro milizia. Le colonie greche in Italia sono interamente libere e regine; non hanno vincolo fra loro né colle città madri, benché abbiano l’amicizia di queste e talvolta il soccorso. Le città dette propriamente italiche sono libere in sé; ma il supremo diritto di guerra e di pace è limitato da patti federali più o meno larghi colle altre della medesima lingua, o da trattati colle rivali, o dall’autorità delle più potenti. Le colonie partecipano alle guerre, alle paci, alle alleanze delle città madri, e sorgono o cadono colla fortuna di queste. Ma ogni città si governa da sé, dentro i termini della sua terra. E anche quando è costretta a guerre non sue, milita sotto le sue proprie insegne e i suoi capitani. L’indole armigera e magnanima è comune a tutte. Tale è la prima èra delle città italiane. Roma, sorta al confine di tre lingue, la latina, la sabina, l’etrusca, pare costituirsi dalla vicinanza e dalla graduale coesione di tre colonie, poste forse a vigilar reciprocamente all’estremo confine, sui colli che sorgevano come isole in mezzo alle paludi, presso il confluente di due fiumi arcifinj il Tevere e l’Aniene. Le tre castella nel corso degli anni divennero tribù d’una città comune, in cui per l’opportunità del luogo potè accasarsi maggior numero di Latini, e la loro lingua prevalse. Pel connubio delle tre stirpi, le loro tradizioni religiose, civili e militari nei posteri si vennero confondendo. Roma fin da origine ebbe ad unificare in sé tre sistemi; ebbe a darsi una civiltà triplice, ad esercitare un triplice ordine d’idee. Colla combinazione di queste, ella si pose a capo delle tre nazioni, e quindi mano mano di tutta la penisola, assimilando, appropriando, assorbendo, mentre ognuna delle altre genti rimase confitta nelle sue idee prime; epperò predestinata a soccombere ad una volontà retta da più vasto e potente pensiero. Nel seguito delle guerre, in molte città vennero poste come colonie, cioè come presidii perpetui, centinaia anzi migliaia di famiglie romane; fra le quali furono divise le terre confiscate alle famiglie più avverse o a tutto il comune. Ma restò sempre alle sole città italiche l’onore e il profitto della milizia romana. Uomo d’altra nazione non venne mai scritto nelle legioni della repubblica. Anzi l’antica coorte si componeva d’un manipolo romano e d’uno latino; e il centurione latino si alternava nel comando col romano. La milizia italica durò finchè durò la milizia romana. Da Roma uscì l’esercito; dall’esercito romano uscì la nazione. Ma, collegate a Roma o a lei sottomesse, le città italiche non hanno più il diritto di guerra, di pace, di federazione. Le native loro leghe, fondate nelle origini, nelle lingue, nelle religioni, nelle memorie d’una potenza e d’una gloria comune, rimangono disciolte. Non solo si toglie loro il diritto di far congressi, ma quello d’acquistar beni e contrar parentele nel seno d’altra città. Quelle che non divengono del tutto romane, non devono più conoscere se non sè medesime e Roma: coeteris latinis populis connubia, commerciaque et consilia inter se ademerunt (Liv.). Così mentre il romano propagava per tutti i municipi la sua milizia, il suo commercio, l’usura, i possedimenti, i connubj e i varj gradi della sua cittadinanza, le singole città, quanto più si congiungevano a Roma, tanto più si disgiungevano dalle città consanguinee. Ma nella dispersione delle leghe, nell’oblìo delle lingue e delle religioni, nell’esterminio delle minime città, il cui territorio colle immuni confische delle guerre sociali e civili era inghiottito forse in un solo latifondio, quei municipj ch’erano largamente radicati nelle campagne, sopravvivevano; anzi si chiudevano più saldamente in sè, per la maggior distanza dal centro comune. Tutto ciò che non si fece romano, ebbe a farsi più strettamente municipale. Nè le sole Famiglie più oscure si saranno attenute all’antico nido; ma forse quelle appunto ch’erano state in altro tempo più illustri. Sdegnose, e contente nell’odio, esse avranno anteposto alle ambizioni romane la tacita riverenza dei cittadini. Questo è nell’indole costante della nazione; e più volte si avverò. A questa stoica accettazione d’una dignitosa oscurità si deve la tenace e continua vita dei municipj nelle età più infauste e desolatrici. In ogni municipio vi furono dunque due elementi. L’uno era coloniale, romano, latino; era nuovo e comune a tutta l’Italia; si annunciava splendidamente nella lingua scritta, nella letteratura latina, che si levò come un sole su tutta l’Italia. L’altro era antico; era la reliquia d’un popolo disfatto; si annunciava nell’inculto idioma delle plebi, che non potevano accorrer tutte ad imparare una nuova lingua nelle scòle e nel foro di Roma; ma la raccoglievano fortuitamente e spezzatamente negli eserciti, nei mercati e lungo le grandi vie che portavano nelle lontane provincie le legioni. In quell’uso tumultuario dovevano mutilarsi e impoverirsi le inflessioni, ridursi a costruzione semplice e diretta la trasposizione latina, torcersi i suoni giusta le pronuncie indigene. E così nel dialetto s’improntava indelebile la memoria di quel singolo popolo al quale il municipio aveva appartenuto. Chi segni sulla carta una linea per Firenze, Bologna, Padova, Udine, trova nel confine dei dialetti il preciso confine antico di quattro nazioni.
Questi termini immobili d’una geografia anteriore ai Romani rimasero aderenti alle mura dei municipii. Ma indarno più oltre, al di là delle Alpi Giulie o Retiche ove le città non ebbero larga radice nei popoli, andremmo a cercare i confini antichi delle nazioni che vennero ondeggiando con perpetuo flusso e riflusso per quei vaghi spazj. Dopo le guerre civili e le proscrizioni e la conquista della Liguria e della Rezia,18 al limitare dell’èra nostra, v’è in Italia una sola nazione, unificata e rappresentata in una sola città. Le altre non hanno autorità sovrana se non in quanto sono ascritte alle tribù di questa; schierate sotto le sue insegne, hanno parte alle spoglie del mondo. Ma quell’unica sovranità è già in nome del popolo afferrata dai Cesari. I Cesari sono l’ultima conseguenza e l’ultima espressione dell’unità. Le legioni vengono relegate alle frontiere. Roma è data in guardia ai pretoriani. L’Italia è armata, e tiene colle armi un immenso imperio. Ma le sue città sono tutte inermi. Così si compie l'era seconda.

II 
Ottaviano non avrebbe mai potuto affrontare tutte le tradizioni e le consuetudini dei Romani. Egli non tentò abrogare il consolato o il tribunato; ma si fece a grado a grado console perpetuo, perpetuo tribuno, censore, pontefice. Tutto il rituale religioso e politico che aveva consacrato agli occhi del popolo le antiche famiglie trionfali, venne magnificando una famiglia sola, i suoi congiunti, i clienti, i servi. Circoscritto l’esercito alle fide coorti pretone e urbane e ai lontani presidii dei confini, si negò il ritorno ai veterani; la milizia divenne un esilio. I senatori amministrarono in silenzio le provincie pacifiche; divennero ignoti alle provincie militari. Giureconsulti quasi privati non sospetti di potenza presso i popoli o di favore presso le legioni, poterono continuare in pace le loro deduzioni. L'antica Roma del diritto civile, illuminata dalla filosofia stoica, potè per alcune generazioni sopravvivere, tollerata dai capitani che avevano disarmato i patrizi e avevano interesse a compiere il pareggiamento iniziato dai tribuni. I giureconsulti, precorrendo sempre colla dottrina alla legge, giunsero perfino a sentenziare che la schiavitù era cosa contro natura: Bella etenim orta sunt; et captivitates secutae et servitutes, quae sunt naturali juri contrariae! Ma non è vero che l’umanità dei giureconsulti fosse ispirata dai Cesari; poichè la fratellanza di tutti gli uomini, societas caritatis, si vede annunciata, già mezzo secolo avanti l’èra nostra, negli scritti di Cicerone, insieme al principio della tolleranza universale: universus hic mundus civitas communis deorum atque hominum. Nè mai veruna dottrina posteriore poteva abbracciare con più largo vincolo di benevolenza tutte le genti e tutte le religioni. In seno alla pace, l’Italia, meta comune di tutte le nuove vie che collegavano le provincie, porto d’un mare tutto suo, dimora delle famiglie che avevano conquistato i regni, versò i tesori del mondo nella decorazione delle sue città e de’ suoi campi. Il Tevere, diceva Plinio, è ornato e vagheggiato da più ville che non tutti gli altri fiumi della terra. A misura che si estinguevano le famiglie educate nell’eredità degli onori e delle conquiste, e che il senato si faceva ossequioso e il popolo si disusava dalle armi, la truce ragione di stato dei Tiberii e dei Seiani poteva placarsi. I capitani che la fortuna inalzava al comando delle legioni e al nome di Cesari, non furono più spinti a incrudelire contro i privati per propria salvezza. Interrotta dal solo Domiziano, potè continuarsi nell’imperio una serie d’uomini come Vespasiano, Tito, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino, Marco Aurelio. Ma con tutta la loro saviezza, pur non potevano non obbedire alla logica dei potere che li traeva ad emanciparsi sempre più dall’aura popolare, dalle armi cittadine, dalle republiche municipali, dal predominio dell’Italia, la quale irradiava le native sue istituzioni su tutto l’occidente. Cominciarono essi a coscrivere nelle estreme provincie le legioni che dovevano presidiarle. E siccome è nella natura delle cose che gli armati non restino inferiori di condizione agli imbelli, infine, sotto Caracalla (A. 212), la cittadinanza romana fu accomunata a tutti i sudditi dell’imperio. Il che vale quanto dire che fu abolita. Ai medesimi tempi la violenta morte di Papiniano e Ulpiano troncò la viva tradizione della giurisprudenza. Alla generosa e provida scòla che voleva la ragione interprete della natura e duce
dell’umanità, segui tosto la fantastica setta di Plotino, che sperava nell’estasi e sprezzava il mondo e lo abbandonava alla violenza e al caso. Così nella terza era le città italiche, opulente, ornate d’arti e di lettere, penetrate da un alto senso di ragione e d’umanità, erano vicine a perdere insieme alla cittadinanza romana ogni distintivo di nazionalità. Era un decadimento velato dall’apparenza della prosperità della cultura e del dominio. Ciò che i Cesari avevano rispettato e adulato nelle città italiche, era il soldato romano, il cittadino romano. Abolito il soldato e il cittadino, l’Italia, sebben sede dell’imperio, non era altro omai che una provincia. Dopo Caracalla, per tutto il secolo III, i capitani d’un esercito sempre più straniero si contesero colle armi l’imperio e la vita. Ma tutti, per orgoglio militare e per illimitato arbitrio, dovevano aborrire ogni rappresentanza municipale; e più di tutto quella che pareva una continuazione della repubblica romana. Aureliano e Diocleziano si proposero ad esempio le autocrazie dell’oriente, il regno della forza in tutta l’asiatica ostentazione. Il gran punto era che l’Italia non fosse più amministrata per municipii da curie composte di maggiorenti o di eletti del popolo, ma per vaste prefetture, affidate a favoriti (comites) a modo delle satrapie persiane. Tanto assoluta divenne poi l’autorità di questi prefetti, che in alcune provincie dell’oriente essi giunsero a prendere apertamente il nome di despoti. Ultimo e inevitabile effetto di questo modo di governo è stringere per ogni provincia in una sola mano armi, giudizii, tributi, opere publiche; non soffrir norma o misura; non dare sicurtà alle cose o alle persone, al diritto o all’onore. Fu questo per la civiltà italica un profondo sovvertimento. Con Diocleziano ebbero principio sette secoli di barbarie, fino al risorgimento dei municipii, verso l’anno mille.   E per verità, che sogliamo noi significare anche oggidì quando chiamiamo barbara l'Asia? Non è già che non siano quivi sontuose città; che non siavi agricoltura e commercio, e più d’un modo di squisita industria, e certa tradizione d’antiche scienze, e amore di poesia e di musica, e fasto di palazzi e giardini e bagni e profumi e gioie e vesti ed armature e generosi cavalli e ogni altra eleganza. Ma noi, come a fronte dei Persi e dei Siri i liberi Greci e Romani, sentiamo in mezzo a tuttociò un’aura di barbarie. Ed è perché in ultimo conto quelle pompose Babilonie sono città senz’ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sè verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo. Il loro fatalismo non è figlio della religione, ma della politica. Questo è il divario che passa tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene; tra i contemporanei d’Omero, di Leonida e di Fidia e gli ignavi del Basso Imperio. L’istituzione sola dei municipii basterebbe a infondere nell’India decrepita un principio di nuova vita. Adeguata alle provincie dell’Asia, l’Italia cadde al pari di esse sotto il flagello della fiscalità. In breve si vide desolata la campagna, disgregato dagli esattori il retaggio avito della città. Intanto le false legioni, coscritte fra quei medesimi barbari ch’esse dovevano combattere, e prive di quell’arte militare ch’è il frutto e il compendio d’un’alta civiltà, erano di tanto infida e vana difesa che poco dopo Caracalla già le orde nomadi poterono penetrare nel mezzo dell’Italia, che non per ciò dai Cesari venne armata; pensarono essi ch’era meglio vederla desolata che vederla forte. I popoli, non potendo più distinguere in quel diluvio straniero gli eserciti amici dai nemici, disfacevano i ponti e le strade per disviare le invasioni. Le città isolate in mezzo a squallide solitudini caddero in rapida miseria e ruina. Poco dopo Costantino, S. Ambrogio le chiamava: semirutarum urbium cadavera. Già si sa perchè Costantino avesse abbandonato l’Italia. Finchè l’Italia era la sede dei regnanti, sempre la memoria del suo primato suonava nell’animo delle nazioni come la voce del diritto. E le nuove pompe asiatiche, delle quali divenivano solenni legislatori e antistiti gli eunuchi, non potevano senza amaro disdegno esser mirate dal popolo romano sempre ricordevole dell’antica potenza e maestà. Quindi irresistibile nei Cesari il pensiero di trasferire sul limitare dell’Asia la sede dell’imperio, volgendo a tal uopo la stessa poetica tradizione che poneva in quei luoghi la madrepatria di Roma. Quindi l’Italia tramutata in frontiera, spogliata di quelle difese e di quei privilegi che si riservano alla sede dei regni.
Nella quarta éra le città d’Italia sono adunque sottomesse al régime asiatico, subordinate ad una capitale quasi asiatica, civilmente e moralmente associate all’Asia. Anzi in tal condizione rimasero molte città marittime per tutto quasi il medio evo; fu questa la forma della loro barbarie. Il nome di duci o volgarmente dogi, che portavano i prefetti militari inviati da Bisanzio, rimase poscia ai magistrati di quelle che risursero alla libertà primitiva.
Ma la rimanente Italia soggiacque ad altra più profonda sovversione dell’ordine municipale e a più intenso grado di barbarie, quand’ebbe a stabili abitatori suoi gli stessi barbari. Pel volgo degli scrittori, l’invasione gotica e longobarda è l’ultimo esito d’un’inveterata guerra tra Roma dominatrice e le nazioni vergini e libere del settentrione. Non è così. Goti e Longobardi non avevano mai avuto a difendere i patrii deserti dalla conquista romana; non combattevano pei loro diritti; ma erano in uno od altro modo mercenarj o vassalli o profugi nelle terre bizantine; e fattisi ribelli, venivano riversati per ripiego dei governanti verso l’Italia, ch’era divenuta per questi una frontiera ai di là dai mari e dai monti. Or è a notare che già dai tempi incirca di Caracalla, ossia dall’abolizione della cittadinanza romana, si era tentato sostituire un nuovo popolo militare a quello che si voleva disarmare. Si era fondato lungo il Reno e il Danubio un nuovo modo di milizia, e con esso un nuovo modo di tributo, e una nuova possidenza, aborrente tanto dalla proprietà italica quanto dalla comunanza germanica. Già sotto Alessandro Severo e sotto Probo i soldati, lungo quei confini, ebbero assegni stabili di terre con dote di bestiami e servi, e col diritto di trasmetterle ai loro figli insieme al dovere della milizia. Fossero dapprima Romani o nol fossero, essi dovevano d’allora in poi radicarsi sui loro terreni. Ecco legalmente istituita una casta militare in un imperio propositamente disarmato. Ecco fondato il diritto feudale, col fedecommesso condizionato alla milizia, col godimento senza libera proprietà, coll’appartenenza dei servi non all’uomo ma alla gleba, col tributo non pagato in moneta al principe, ma fornito in viveri dall’agricoltore al soldato. Questo nuovo diritto sociale doveva col tempo dilatarsi dall’estrema frontiera alle provincie interiori, a tutto l’occidente, alla stessa Italia. Probo aveva detto che quella nuova istituzione avrebbe reso inutile ogni altro esercito: Dixit brevi milites necessarios non futuros (Script. R.It. I.). Ma il compimento del suo sistema era già il più barbaro modo di conquista; poichè disfaceva la possidenza e riduceva a perpetua servitù l’agricoltura. E venendo i nuovi signori a vivere nelle loro stazioni militari fra i servi avvinti alla gleba, i vetusti palagi delle città restavano condannati a solitudine e ruina, e riducevasi la società municipale a poca e misera plebe. Era la primitiva barbarie del settentrione trapiantata stabilmente nel mezzodì; era troncato l’intimo commercio tra la città e la terra. Allorchè le milizie barbare poterono espandersi senza freno sulle interne provincie, l’isolamento delle città riescì maggiore in quanto codesti Goti, Eruli, Longobardi che si appropriarono successivamente sia le terre sia le rendite, erano bensì cristiani, ma della setta ariana poco diffusa nelle città d’Italia; e i più degli agricoltori erano, come porta il nome, tuttavia pagani. Perlochè quando Radagaiso con duecentomila Goti penetrò fino negli Apennini ove poi fu disfatto e preso (406), i contadini videro in quella irruzione d’un esercito cristiano una vendetta degli antichi Dei, posposti dai nuovi imperanti. «Invase subito Roma infinito spavento; accorrono in città tutti i paesani (fìt omnium paganorum in urbem concursus); esclamano tutti di soffrir questo perchè furono negletti i riti de’ sommi Dei (quod neglecta fuerint magnorum sacra Deorum); ferve di bestemmie tutta la città (fervent tota urbe blasphemiae; vulgo nomen Christi... probris ingravatur) (Script. R. It. I. ) » . E poco stante, Alarico, che aveva già distrutto in Grecia i templi di Cerere Eleusina e di Giove Olimpico, atterrò in Roma la statua della Vittoria, palladio del popolo (410). Quella stessa ragione di stato che aveva determinato i Cesari ad allontanarsi da Roma, aveva dovuto indurli a mutare il giuramento che per quelle soldatesche avventizie era l’unico vincolo di fedeltà, e che divenne poi in occidente, sotto il nome d’omaggio, il nodo supremo dell’ordine feudale. Sarebbe stato assurdo che gli eserciti di Bisanzio dovessero prestar tuttavia giuramento agli Dei del popolo romano, all’aquila di Giove, all’ara della Vittoria. Era necessario un nuovo giuramento e una nuova insegna: ut eum solum arbitrarentur Deum quem coleret imperator (ib). Perciò la milizia e il comando dovevano divenir privilegio dei seguaci d’una nuova fede: Jussit... christianos solos militare, gentibusque et exercitibus principari (ib.). I Goti dunque, i Vandali, i Longobardi, nell’aggregarsi in uno od altro modo alle forze bizantine, dovevano per primo atto di disciplina sottoporsi al battesimo. Ciò avendo essi cominciato a fare quando la dottrina d’Ario, ripulsa poco prima nel concilio di Nicea (325), era salita in favore a Costantinopoli, il cristianesimo pervenne a loro sotto la forma ariana. AI che valse assai la versione che Ulfila, vescovo ariano, fece delle scritture in lingua gotica, a quei tempi incirca che S. Gerolamo le traduceva in latino. Questo è un fatto semplicissimo; nè si vede come Pierre Leroux potesse riputare astuzia di corte l’avere imposto di preferenza alla milizia la dottrina degli Ariani, perchè questi «lui paraissaient infìniment moins révolutionnaires (Enc. Nouv. — Arianisme, Athanase)». Tuttociò che si può dire è che l’arianismo si accostava molto al mosaismo, che certamente non è dottrina servile. E infine se la corte bizantina seguì per qualche tempo l’arianismo, lo abbandonò tosto e per sempre. Onde se vi fu arte nell’inviare genti ariane in paese non ariano, è mestieri dire ch’essa non oltrepassò il triviale precetto: divide et impera. Intanto erano isolate nel secolo quinto e sesto le città, perchè vi si era introdotto di recente l’uso rituale della lingua latina, o conservato forse in alcune il primiero uso della greca, ma nelle campagne, presso la casta militare, dominava la fede ariana e la lingua gotica, e presso le genti rustiche il culto degli antichi Dei. Ebbene, in tanta confusione, la forza dei municipii, comunque prostrati e conculcati, fu tanta, che il rituale latino potè uscirne ad occupare insensibilmente tutta la superficie dell’Italia. E a misura che il paganesimo spariva dalle campagne, i confini tra l’una e l’altra diocesi vennero a coincidere all’incirca con quelli delle antiche giurisdizioni municipali, che rappresentavano altri più vetusti termini di popoli e religioni. Era come una selva atterrata che ripullula da sepolte radici. La stessa casta longobarda, opponendo un vescovo ariano ad ogni vescovo latino, accettò e sancì quelle prische circoscrizioni. Il municipio fu più forte della conquista. Qui si affaccia una dimanda. Quali sarebbero le sorti della civiltà e nazionalità italiana, se nel secolo IV la lingua rituale non fosse stata in Italia la latina, ma la greca o la gotica? - Si può con fondamento rispondere che in ambo i casi sarebbe riescito assai maggiore lo smarrimento delle voci latine e l’intrusione delle voci greche o gotiche. Quindi maggiore il divario tra la nuova lingua italiana e la latina e quelle delle altre nazioni consanguinee. Epperò sarebbe maggiore l’isolamento intellettuale e morale, e più difficile quella comunanza d’idee coi popoli antichi e coi moderni che giovò tanto al nostro incivilimento e più al loro. Inoltre i libri latini, che vennero a salvarsi perchè la gente raccolse piamente e conservò come sacro o quasi sacro ogni ritaglio di manoscritto latino, sarebbero stati negletti, e forse di proposito distrutti come mero rimasuglio di pagani; e pur troppo anche così sovente lo furono. Onde si sarebbe forse perduta la memoria del latino, così come avvenne dell’osco, e più ancora dell’etrusco. E ora staremmo forse ignari e muti, come innanzi alle pietre etrusche, così anche innanzi alle iscrizioni latine. E insieme alla lingua sarebbe sepolto quel tesoro di sapienti pensieri e di magnanimi affetti che per le lettere latine si trasmise a noi e inspirò tante splendide azioni, e informò le nostre moderne leggi e la vita intima delle nostre famiglie. L’Italia avrebbe potuto soggiacere a quello stesso infortunio, che afflisse la Persia e la Battria e l’Egitto. Il danno sarebbe stato comune a noi e a tutte le nazioni che collo studio della lingua latina si apersero l’adito all’eredità intellettuale e morale della madre Italia. Fingiamo poi che una comune calamità avesse colpito la lingua latina e la greca; e dopo le orride devastazioni dei Goti e dei Vandali, potremmo imaginarci di errare come i Beduini sulle ruine di Tebe e di Ninive. Un’altra quistione venne già più volte agitata. Quali sarebbero state le sorti dell’Italia, se i Longobardi avessero disteso il regno loro a tutta la penisola o almeno a Roma? — Valga il vero. Alarico Visigoto ebbe Roma e tutta la penisola dall’Alpi a Cosenza, ove morì; ed ebbe pure tutta Italia Odoacre Erulo; e tutta Italia Teuderigo Ostrogoto e l’ebbe col consenso dell’imperator d’oriente. E tutte queste tre complete unità di regno in breve svanirono, e non lasciarono altra memoria che di ruine, e l’Italia restò più debole che non fosse prima; mille volte più debole che non quando le sue città, sebben divise da lingue e religioni, e accese di fiere inimicizie, pur tuttavia seppero resistere a Brenno, a Pirro, ad Annibale. Il dominio dei Longobardi fu men vasto di quello dei Visigoti, degli Eruli, degli Ostrogoti e molto più lontano dal raggiungere l’unità, ed ebbe più poderosi nemici dentro e fuori; eppure durò due secoli, quando quello degli Ostrogoti che abbracciò tutta Italia durò solo sessant’anni; e quelli degli Eruli e dei Visigoti assai meno. Tutti questi regni, ed altri, caddero non perchè fosse loro troppo angusta la terra e poca la gente, sicchè non potessero affrontarsi con qualsiasi altra potenza dei tempi loro; ma perchè non avevano radice nei popoli; perché si erano grettamente appresi alle glebe dei feudi e alle chiuse delle Alpi, e non all’antica forza municipale, al comizio, al tribunato, al foro; non si erano assimilate le città come i Romani; non le avevano fraternamente ascritte alle tribù e alle legioni. Avevano bensì i loro malli e arringhi, i loro parlamenti armati, ma in disparte dei popoli. E non erano più che i consigli di guerra di una casta militare; non erano più che lo stato maggiore d’un esercito disseminato per una terra, sulla quale da più generazioni esso nacque e rinacque come pianta parasita, senza prendere innesto sul tronco nativo, nè appropriarsi la legge della sua vita. I Longobardi occuparono certamente due terzi dell’Italia; poniamo, comprese montagne e paludi, sessanta mila miglia di superficie. Erano sempre stati piccola nazione: Langobardos paucitas nobilitat (Tac.). Si vuole che, quando vennero, annoverassero sessantamila combattenti. La conquista poteva dunque dare in sorte d’ogni uomo il dominio d’un miglio di terra. Ma se fossero stati pure in doppio numero, molti ebbero a perire nelle pugne, negli assedii, nelle marce. Stettero tre anni sotto Pavia, presso grandi fiumi, in campagne impaludate; assediarono lungamente Oderzo, Mantova, Ravenna e altre città in sito insalubre. L’Italia era da due secoli devastata; dopo la peste di Narsete, quasi deserta. Ma le operose e sobrie stirpi degli agricoltori e degli artefici, sebbene in condizione dura e vile, potevano d’una ad altra generazione rifarsi. Non così una casta militare, logorata assiduamente dalla guerra straniera e civile; dalla perenne guerra privata, dalla faida, dal duello, dalla custodia delle gole alpine, dai presidii nelle lagune della Venezia e dell’Esarcato e nelle maremme della Toscana, dal clima ovunque insolito e maligno, dalla intemperanza boreale, dai disordini del saccheggio, della conquista, della vita feudale. Epperò se i Longobardi, dopo i primi anni, non si allargarono più oltre, egli è che non avranno potuto; egli è che tutte le conquiste trovano termini insuperabili in ciò che la forza espandendosi si consuma. Occupando per lungo quasi tutta la penisola, i Longobardi non poterono spaziar mai liberamente fino all’uno o all’altro dei due mari; ma dovettero soffrire lungo i lidi una catena di città nemiche, da Grado e Venezia sin oltre Bari, e da Roma sino a Reggio. Ciò non era senza pericolo e molestia e disonore. Ed era perchè non ebbero gente quant’era mestieri alle mortifere fatiche degli assedj, che, inesperti di macchine e di navi e d’ogni scienza militare, non potevano nemmeno tentare con aspettazione di vittoria sì vicino alle navi nemiche. E la pochezza di loro numero si può misurar materialmente anche dall’angustia delle città che furono loro primarie fortezze e sedi dei principi, come Pavia, Cividale, Spoleto e Benevento. L’esercito longobardo, non avendo dietro a sè nazione che riparasse alle assidue perdite, dovè per necessità ricorrere a gente straniera. Fin dalla prima spedizione ebbe ausiliarj Sassoni, probabilmente pagani, e per ciò congedati in breve; nell’assedio di Cremona ebbe a chiamare ausiliarii Slavi. I superstiti delle guerre, radunando in sè le eredità dei caduti, dovevano colle successive generazioni andarsi mutando in fastosi patrizj. Si avviavano al campo con séguito grande di scudieri, palafrenieri, paggi, valletti e fanti d’ogni maniera. Onde il pronipote di chi nella prima invasione era stato seminudo alabardiere, marciava capitano d’una cavalcata di cortigiani e di servi. E tutto un esercito accozzato di tali brigate feudali, doveva esser molto simile per fedeltà e valore ai Sepoi dell’India.  Codesta miscela d’indigeni, avversi per tradizione di famiglia e per religione ai dominatori ariani, dovette render sì pericolosa nelle guerre contro i Franchi la condizione dei Longobardi, che questi per necessità ebbero infine ad uniformarsi alla religione del maggior numero; onde l’arianismo si spense prima del regno. Questa ragione è più istorica che non quella dell’apostolato della regina Teudelinda, che altrimenti avrebbero uccisa. Al tempo delle prime irruzioni (A. 400), nell’Europa meridionale e in Africa gli invasori erano quasi tutti ariani; ma già prima della discesa dei Longobardi (568) i Visigoti avevano ceduto nelle Gallie ai Franchi, seguaci della chiesa latina (507); poco dipoi furono esterminati in Africa i Vandali (534); gli Ostrogoti in Italia (553). I Visigoti di Spagna, ai tempi di Leovigildo (568), per ragioni simili alle giù dette si erano dovuti accostare alla chiesa latina; l’arianismo era obliato anche a Bisanzio. Onde, fin dall’arrivo loro, i Longobardi erano omai quasi soli al mondo di loro setta; e non potevano più aggregarsi a rinforzo se non gente d’animo nemico. A questa potevano infeudar terre, ed imporre omaggi e giuramenti e nuovi nomi longobardi. Ma infine, come le false legioni avevano tradito l’imperio, i falsi Longobardi dovevano tradire il regno. Nè al regno avevano mai posto amore veruno i popoli d’Italia, ai quali significava miseria e avvilimento. Tutte le loro memorie e affezioni erano pel riacquisto di quell’antico stato colle cui leggi si reggevano le famiglie, e colla cui lingua si dinotava ogni cosa sacra. Nei quattro secoli in circa del dominio gotico e longobardo, la barbarie andò crescendo; poichè nessuno poteva inalzarsi se non seguendo e imitando i barbari. Le città non erano apprezzate se non come fortezze; i cittadini, come tali, non avevano parte nelle cose del regno; nè avevano potere alcuno sulle proprie sorti; il municipio era quasi disciolto e abolito. Le buone tradizioni si andavano sempre più spegnendo di generazione in generazione. Il male non è il bene; barbarie, ruina, distruzione non è progresso. Milizia, agricoltura, commercio, scienze, lettere, l’alfabeto stesso, andavano in oblio. La gente più non aveva valore nè virtù. I barbari si andavano spegnendo, insieme alle città che avevano desolate.

III 
Non più favorevole alle città italiche fu l’èra settima, o vogliam dire la dominazione di Carlomagno e de’ suoi posteri e pretendenti, per l’indole sua feudale e rusticana. Ma giovò ad esse l’odio suo contro i Longobardi, e più ancora la debolezza e caducità delle sue istituzioni. Chiamato dal clero, Carlomagno ne’ primi anni suoi (774) si fece re dei Longobardi, mollemente avversato dai loro duchi, ai quali conveniva il re più lontano. Epperò egli dapprima potè conservarli nei loro stati, poi scoprendoli riluttanti e infidi, ovvero trovatosi più potente, si diede a farne esterminio. Solo appiè delle mura di Brescia, fece appiccar mille dei loro masnadieri: mille curtisianos (Rod. Not. V. Rosa, feudi 51). Ma gli fu forza lasciare ai Longobardi l’ampio stato di Benevento. Per questo, e per la parte di conquista promessa al pontefice, ridusse il regno a poco più della metà. I suoi tentativi per aggiogarvi la nascente Venezia ebbero esito inonorato; la città fu più forte del regno. Parrà che alla milizia longobarda diseredata, o almeno disgregata, Carlomagno potesse facilmente supplire cogli Austrasii, cioè co’ suoi Fiamminghi e Valloni, che si erano già sovrapposti alle Gallie e alla Germania. Ma, sebbene i regni fossero orridamente spopolati, la milizia era privilegio di pochi. E nel mezzo secolo che durò in Francia il governo di Carlomagno (768-814) la casta militare, per le spedizioni incessanti e le lontane traslocazioni, rimase attrita e dispersa. Molte famiglie armigere caddero per orfanezza e miseria in servitù dei potenti, che si usurparono dominii immensi. Una delle cose che Sismondi pose in chiara luce, e diremo una delle sue scoperte istoriche, è questa che sotto il re senza fine lodato e ammirato «l’antique et glorieuse nation des Francs s’était presque anéantie (Hist. des Fr. III)». Il che renderà più probabile ciò che si è detto intorno al deperimento dei Longobardi. Ma la forza militare dell’imperio scemò più ancora per l’accessione del clero al sistema feudale. Pare che lo stesso Carlo non fosse della progenie venuta già nelle Gallie coi Merovingi, ma d’una famiglia episcopale di Metz, che Leo deduce dalla gente romana dei Tonantii Aureoli. E certo la fortuna di quella famiglia presso i Merovingi ebbe principio con uno di quei titoli di domesticità (maior domus) i quali dai barbari solevano darsi appunto agli indigeni. Quando i maggiordomi col favore del clero giunsero al comando delle armi, e poscia al regno, e poscia all’imperio, ed ebbero
associato secoloro il pontefice alla suprema presidenza della società feudale, tutte le terre vennero a partirsi tra militari e prelati; ma questi potendo continuamente accrescere, giunsero infine ad avere la più larga porzione. Si sa che Alcuino, benchè straniero, accumulò quattro abbazie, Tours, Ferrières, S. Loup, S. Josse, con ventimila servi della gleba, cioè con un territorio che potrebbe avere adesso duecentomila abitanti. Perciò la casta militare, che nel regno dei Merovingi era estranea al sacerdozio e nei regni ariani gli era nemica, fu necessariamente tratta ad invadere le dignità della chiesa. Perocchè solo a questa condizione e sotto questo titolo, poteva ritenere le antiche signorie, sicchè non trapassassero in famiglie suddite e avverse. Laonde vediamo ai nomi dei nostri vescovi, prima orientali o greci, e poscia romani, succedere allora i nomi franchi d’Ansperto, d’Anselmo, d’Ariberto, d’Arderico. In un documento bresciano Gabriele Rosa fra centotrentuno preti numerò soli venticinque di nome romano, sia che i più fossero veramente di famiglie franche o longobarde, sia che studiassero di confondersi con esse imitando i loro usi. I figli della casta militare, investiti delle donazioni clericali ch’erano probabilmente subinfeudate in minori famiglie armigere, riscossero l’omaggio dei vassalli combattenti; imposero loro i capitani di guerra; più tardi li condussero essi in campo; comparvero con usbergo e cimiero nelle battaglie; restarono talora uccisi sul campo. Ai tempi di Ottone I, il conte di Milano Bonizone da Carcano, abusando feudalmente dell’autorità datagli dall’imperatore su la città: «virtute ab imperatore acceptâ, velut dux castrum procurando, regebat (Land. Sen.)» procacciò l’arcivescovato a suo figlio Landulfo, che investì nei satelliti di sua famiglia tutte le sacre prebende: «universos ecclesiasticos honores et dignitares feris et saevissimis Iaicis tradidit». La barbarie longobarda non era almeno entrata nel santuario; aveva depressa la magistratura ecclesiastica, non l’aveva invasa. Ma le infeudazioni caroline l’apersero all’ambizione delle famiglie militari; la deviarono da ogni preparazione di studi. Fu allora che in questa classica terra di Catullo e di Virgilio, prelati, non curanti di lettere come i selvaggi loro progenitori, si ridussero a fare appiè delle carte la croce dell’illetterato; poterono dettar testamenti in quel famoso latino «per Warimbertus... nepoto meo» (Verri C. III). Già si sa che Carlo medesimo non sapeva scrivere; nè alcuno darà colpa a lui dell’ignoranza del secolo in cui crebbe. Ma gli scrittori sinceri non possono negare che le sue istituzioni fecero le città d’Italia più barbare che non le avessero lasciate i Goti. Da Carlomagno il secolo del ferro. Il popolo oppresso non ebbe più il clero compagno de’ suoi patimenti come sotto i duchi ariani: «episcopos qui in depressione et abjectione erant».Ma udì da loro quelle parole d’odio e di contumelia che il vescovo Liutprando di Cremona avventava contro tutta la nazione: «nihil aliud contumeliarum, nisi Romane! dicemus»: invettive, che ripetute da più venerate voci, ebbero un eco perpetuo nelle letterature d’oltralpe e d’oltremare: «Protervia Romanorum!» (S. Bern.). Già prima di Carlo (751), i prelati avevano seggio nelle nuove assemblee di maggio, dove prevalsero in breve ai pochi magnati nei quali Carlomagno le ridusse, mentre agli antichi campi di marzo i Merovingi convocavano tutto l’esercito franco, così come vediamo a parlamento nei poemi d’Omero tutto l’esercito greco. Gli atti dei placiti e delle diete vennero scritti, e forse trattati, in barbaro latino, tantochè i più degli armigeri si trovarono costretti ad un taciturno assenso; infine si videro rimaner piedestanti nelle diete, innanzi ai prelati in seggio. Per tal modo i combattenti vennero in tutela e amministrazione dei non combattenti. Al tramonto di quella abbagliante meteora di Carlomagno, l’imperio suo, accerchiato da cinque nazioni nemiche non aveva già più difensori. Già prima ch’ei morisse, i corsari danesi infestavano tutti i lidi della Germania; poco dopo la sua morte, incendiarono in Aquisgrana il suo palazzo, insultarono al suo sepolcro. In pochi anni desolarono non solo tutte le città marittime come Nantes e Bordeaux: ma remigando su pei fiumi giunsero a Tours e Orleans; penetrarono nei monti d’Arvernia fino a Clermont; salirono per il Reno e la Mosella sin oltre Colonia e Treviri. Parigi, benché isola e fortezza, fu presa almen sette volte; all’arrivo di duecento corsari i cittadini fuggirono tutti (865). I corsari greci distruggevano Populonia e saccheggiavano Marsiglia; gli Arabi s’attendavano sulle ceneri del Vaticano, sui lidi di Nizza e di Genova, fin dentro le Alpi di Susa e del Vallese: gli Slavi superavano l’Elba; infine gli Ungari incendiarono Sangallo, distrussero Pavia, corsero fin sotto Narbona e Tolosa. Tanto gelosa e improvida era la tradizione carolina, che nella dieta di Pistes (864) si ordinò demolirsi quanti luoghi si trovassero murati senza regia licenza.14 Piuttostochè armare i popoli, Carlo il Calvo pattuì di pagare una multa per ogni corsaro che i suoi sudditi avessero ucciso, e di rimandare ai corsari ogni prigioniero fuggitivo, ovvero il prezzo del suo riscatto. Il flusso e riflusso della conquista nell’inerme retaggio di Carlomagno si sarebbe ripetuto senza fine con altri barbari, come da tempo immemorabile nella imbelle Mesopotamia. Senonchè nella dieta di Carisiaco (877), i magnati si appropriarono in eredità perpetua le cariche e i feudi. L’autorità suprema rimase disciolta; ma la mano incapace a difender l’imperio era eziandio resa incapace a impedir la difesa. Da quel momento non fu più fatto ostacolo a qualsiasi signore di provedere a sè ed a suoi. In poche generazioni, sull’intera superficie dell’imperio si venne tessendo con nuovi elementi una feudalità locale, che ridusse a torri e castella le case, murò i villaggi, armò i servi più gagliardi; ospitò profughi, tollerò asili; e anzichè far traffico della propria gente a Greci e Musulmani, come al tempo di Carlomagno, ne comperò dalle terre germaniche, e più dalle slave, per ripopolare i deserti. I nuovi feudi non furono più sorti o allodii, cioè porzioni di conquista divise fra commilitoni; ma concessioni del signore al suddito o sommissioni del debole al potente. I nomi di ligio, cioè uomo, e di vassallo cioè commilitone, vennero a dinotare chi si giurava ad altr'uomo per seguirlo caninamente non solo in guerra pubblica, come prima, ma in ogni capriccio di nemicizia privata. Nella nuova feudalità la milizia si cominciò a chiamar servizio; gli armati appresero a darsi per superbia nomi di servitù. Ma queste leghe private, risalendo di signore in signore fino al sovrano, costituirono una nuova ordinanza che agguerriva o almeno disciplinava le nazioni, sebbene paresse continuata e imitata da quella dei barbari che le avevano disarmate ed evirate, e sebbene al disotto di codesta servitù cortese si stendesse su tutte le glebe la servitù villana. Tutti allora, nello sforzo d’aggregarsi alla nuova colleganza, affettarono di portar nomi franchi, sicchè questi infine divennero promiscui a liberi e servi. I dialetti romani della maggioranza dei nuovi armigeri soverchiarono e seppellirono l’idioma domestico delle poche prosapie straniere. Dall’anno ottocento al mille si andò adunque perdendo ogni distinzione d’origini e ogni memoria di coloro che gli istorici si compiaciono di nominare i vincitori e i vinti. Ogni nobiltà cominciò da quei nuovi e oscuri patti coi grandi della milizia e della chiesa. «La vraie noblesse, telle qu‘elle s’est maintenue comme un ordre dans l’état, ne peut faire remonter aucun de ses titres plus haut que cette époque d’anéantissement» (Sism.). Disperse per entro alla selva delle castella, le città non ebbero nemmen più il privilegio d’essere il rifugio dei potenti fra le incursioni dei barbari; rimasero tanto più disarmate e avvilite. Gli istorici notano che già gli antenati di Carlomagno, ed egli medesimo, le trascuravano e spregiavano, mentre i Merovingi, che le avevano trovate in men basso stato e non così logore da secolare miseria, solevano dividere e intitolare per città i loro regni di Parigi, Orléans, Soissons e Metz. Ma i Carolingi amavano stanziare in terre aperte; Carlomagno ordinò in suo capitolare (de villis) che in ognuna delle sue ville vi fossero tessitori, fabbri argentieri e altri artefici d’ogni maniera, quasi volesse trasferire nei servi della gleba, come l’agricoltura, anche le arti delle cadenti città. Queste andarono adunque in oscurità e miseria sempre maggiore; divennero sovente un’appendice delle castella. «Les plus grandes villes n étaient plus considerées que comme des villages, que comme la dépendance du château voisin» (Sism.). Questa comparativa debolezza delle città si perpetuò in alcune parti della Francia, non ostante ogni incremento del commercio e dell’industria. Ancora oggidì sette dipartimenti che colla loro superficie unita pareggiano il Lombardo Veneto, non hanno maggiori città che di sei, di quattro, persino di tre mila anime (Ariège, Haute Saône, Lozère, Landes, Creuse, Ardêce, Basses Alpes). In quanto le istituzioni di Carlomagno assimilarono l’Italia al rimanente imperio, dovevano adunque deprimere le nostre città; tantochè le meno infelici furono quelle che, come Venezia, Roma, Capua, Napoli, Amalfi, non soggiacquero all’ombra ferale della sua legge. Ma forse furono allora mirate con maggior sospetto le nuove torri delle famiglie longobarde che non le città dei loro antichi sudditi e nemici. Per ciò, quando gli Arabi cominciarono a infestar la penisola, e già prima della calata degli Ungari, vediamo Ludovico Il chiamare all’esercito tutti gli abitanti di Brescia (865): «ut omnes laici, qui arma ferre possent, in exercitalem pergerent expeditionem adversus Saracenos».19 Senonchè, gli armigeri avendo ucciso il conte Bertario, minacciati della vendetta di Ludovico, si apprestarono a difendere le mura anche contro di lui: «commotus est populus universus; arma capere, portas claudere proclamabant» (V. Rosa ib.). Brescia adunque aveva già, ovvero aveva ancora, le sue mura. Pochi anni dopo, le ebbe anche Milano (868-881), che i Goti da tre secoli (538) avevano smantellata. Nel 905 ebbe mura anche Bergamo. Le città fortificate, là dove non vi sono eserciti stanziali, fanno supporre qualche ordine di custodia e d’armamento nei cittadini; e dove la popolazione è scarsa e le città quasi deserte, fanno supporre qualche armamento esteso a tutte le classi. In Italia adunque le mura e le milizie urbane risorsero per quella medesima impotenza e dissoluzione per cui sorsero le castella. E così mentre oltralpe i feudi soprafacevano le deboli città, in Italia si poterono alzare, una a fronte dell’altra, due milizie. L’una urbana composta di liberi artefici, mercanti, scribi e altri superstiti delle famiglie degli antichi giureconsulti e sacerdoti, divisa per arti o per porte, pronta ad accorrere sulle mura, ricordava le tribù civiche della prisca Italia; celava in sè il principio d’un risorgimento integrale. L’altra sparsa per le foreste del contado, composta di castellani e torrigiani e dei loro bastardi e bravi, si attruppava intorno alle romite muraglie di Biandrate, di Castel Seprio, di Castel Marte, ove una gotica strategia aveva posto il ricapito delle cavalcate feudali. La diversità delle giurisdizioni e delle leggi, ch’erano romane nella città e confidate a giudici elettivi, mentre nelle campagne erano più sovente longobarde o saliche, e confuse colla disciplina militare e coll’arbitrio feudale, fecero sì che il servo della gleba potesse anch’egli farsi franco, purchè solo riescisse a fuggire e a lucrarsi colle braccia il pane nella prossima città o nella sua giurisdizione. Quindi crescente ogni giorno il popolo urbano; e per forza di ciò, maggiore ogni anno nel contado la necessità d’armare altri gagliardi, e interessarli con franchigie e feudi e livelli alla difesa delle castella. Le città, non appena riscosse dal letargo dei secoli gotici, espandevano dunque in circuito un’influenza avvivatrice, che rigenerava anche il patto feudale; ed era più possente, ov’esse erano mercati e officine di più largo contado, mentre le città piccole e povere della montagna o delle terre basse e impaludate, e quelle che avevano più patito per le ultime invasioni, dovevano rimaner più ligie alla feudalità. Pertanto esse dovettero recare fìno a più tarda età, non l’impronta longobarda, ma l’impronta dell’età dei Longobardi, non perchè fossero in origine più barbare, ma perchè trovarono intorno a sè minori sussidii a uscir dalla barbarie. Il fatto supremo si è che per tutte le dominazioni gotiche, longobarde e franche si era trasmesso nella ierarchia episcopale quell’ordine di preminenza in cui le città stavano fra loro nei tempi in cui quella erasi instituita. Sempre Roma era stata nell’ordine sacro la prima città d’italia; sempre Milano era stata la seconda Roma; il primato ambrosiano comprendeva Torino e Genova, si dilatava oltremonti fino a Coira e Ratisbona. Le città non emergevano dunque come dal fiume dell’oblio, ma come da lungo sonno, con tutti gli orgogli dell’antico stato. Epperò quando Milano era ancora silenziosa, propter hominum raritatem, e i vuoti suoi spazii erano occupati di pascoli e vigne, vediamo alla morte di Ludovico lI l’arcivescovo Ansperto trar seco in arme i vescovi di Cremona e Bergamo per togliere a forza il cadavere dell’imperatore al vescovo di Brescia e dargli sepolcro in Milano. Lo vediamo negarsi alteramente al comando del pontefice romano che lo chiamava a concilio. Questa preminenza era innata alla città; era la tradizione d’una grandezza anteriore alla chiesa ambrosiana, anteriore al papato, all’imperio, alla conquista romana: Mediolanum Gallorum capur. Ecco le radici dell’istoria moderna abbarbicarsi negli imi ruderi delle età primitive. L’istoria d’Italia è una e continua; non ha principio se non coll’Italia. A questa preminenza civica, trasformata in supremazia rituale, gli arcivescovi attinsero la forza di reggere col voto loro tutte le elezioni dei pretendenti alla corona d’Italia. Ansperto acquista feudi favoreggiando Carlo il Calvo; Anselmo incorona Berengario; Andrea invita al regno Ludovico di Provenza; Lamperto invita prima Rodolfo di Borgogna, poi Ugo di Provenza, Arderico patroneggia
Berengario d’Ivrea; la dieta di Milano proclama Lotario figlio d’Ugo; Valperto chiama in Italia Ottone e lo scorta a Roma. Ad ogni siffatta mutazione, il primato acquistava sempre favori e rendite e dazii e feudi, finchè non ebbe raccolto in sua mano tuttociò che la corona poteva dare: maximos redditus imperiali aucioritate recipiebat... super stratas regales, in exitu quolibet de Comitatu, habuit teloneum; et dum intrabat aliquis... dabat telonariis archiepiscopi, immo innumerabilibus telonariis, censum (Galv.). E coi dazii di tutte le strade aveva acquistato, d’autorità imperiale, la loro custodia e la giurisdizione e la forza armata per tutto il contado, che forse abbracciava in parte altre diocesi: Et archiepiscopus tenebatur custodiri facere passus; et omnibus damnifìcatis infra territorium restituere de suo. Un conte inviato dal re non poteva aver incarico o autorità di contrastare ai voleri d’un primate, che faceva i re e li disfaceva. L’autorità del conte trapassò dunque nel primate, non per effetto di rivoluzione popolare, ma d’autorità imperiale, per continui patti coi principi nuovi o lontani, e per primitiva e costante tendenza, ch’ebbe la politica carolina, di condurre alla confusione della milizia col sacerdozio. Era l’ultimo termine d’un moto di discesa e d’un politico discioglimento. Or com’ebbe principio la separazione dei due principii? — Quando Bonizone e Landulfo ebbero prodigato ai loro armigeri le funzioni sacerdotali, la coscienza dei popoli si oppose. Cacciato Landulfo, ucciso Bonizone, si venne a termini di pace. Ma quali? Per quanto possiamo raccogliere da Galvaneo, si convenne che gli officii sacri restassero separati dalle investiture militari, che sembra si conservassero nei congiunti e aderenti dei Carcano. Anzi pare che in essi si perpetuasse l’eredità, e se ne costituisse il nuovo ordine dei Capitani delle Pievi: Landulphus archiepiscopus, expoliatis omnibus ecclesiasticis personis, quarum bona per nefandam investituram civibus tradidit, quos Capita Plebium appellavit; unde et Capitanei dicti sunt. Landulfo per tal modo dovè trovarsi d’un tratto capo d’un’ierarchia ecclesiastica, probabilmente eletta dai popoli, e d’una milizia feudale eletta da lui e avvinta al suo parentado. Una simile rivoluzione contro il clero armigero, si vede, pure al tempo degli Ottoni, in Cremona. Onde si può tentare la congettura che da quel tempo, i feudi che i Carolingi e pretendenti avevano abbandonati ai prelati, trapassarono per molta parte in un corpo di capitani, che divenne ereditario e indipendente. In questo ritorno del feudo clericale a feudo militare, l’italia seguiva un moto contrario a quello che le avevano impresso per due secoli le istituzioni caroline. I capitani delle pievi rurali, essendo per tal modo quasi un’emanazione della città, seguirono il suo vessillo nelle successive guerre, eziandio contro gli imperatori della famiglia Salica; la quale obbedienza non si sarebbe prestata da chi non avesse avuto investitura da altre mani. Perlochè possiamo dire che, mentre la feudalità oltralpe si conservò regia, qui divenne municipale. Era una milizia diocesana, consolidata, forse per intenzione del fondatore, in un ordine di cittadini: civibus tradidit... capitanei dicti sunt. Così si restaurava uno dei distintivi più antichi della Città italica: la milizia rurale immedesimata col patriziato civile. Ma si apriva l’adito ad una nuova lotta fra le due milizie, fra i capitani del contado e la milizia urbana, fra le castella e la città. Infatti, nella prima metà del secolo seguente (1018-1045), l’arcivescovo Ariberto, ponendosi sopra tutti gli altri Pari del regno, andò in Germania per patteggiare egli solo a Corrado il Salico la corona: suorum comparium declinans Heribertus consortium, invitis illis ac repugnantibus, adit Germaniam, solus ipse regem electurus (Arn.). In ricambio ottiene il diritto di conferire ai suffraganei vescovi di Lodi e di Cremona, non solo l’ordine episcopale, ma la feudale investitura: ut sicut consacraverat, similiter investiret. E di questo modo procede Ariberto a soverchiare tutti i magnati e agitare tutta l’italia: totam evertit Italiam, alios re, alios spe, benevolos faciens. Lodi resiste, ma viene oppressa; oppressa Cremona; oppressa Pavia, che gli Ungari del re Berengario avevano già spogliata di tutte le reliquie della regia fortuna; Asti è invasa col pretesto delle nuove sette. Ariberto, pontefice armato, e quasi re della vasta provincia ambrosiana, va con un esercito in Borgogna a propugnare le ragioni di Corrado. Reduce, s’involge in guerra civile coi capitani, forse già in quelle due o tre generazioni resi indocili dall’eredità. Egli oppone ai capitani la fanteria urbana, che serrandosi intorno al sacro carro, affronta in campo la cavalleria. In ciò forse fidando, Ariberto si scioglie affatto dalla legge feudale; rompe guerra allo stesso Corrado. Chi si figurasse che il principio di questa potenza fosse in Ariberto, e non nella città, dovrebbe discredersi allorchè lo vede, già presso al termine della sua carriera (1042), lungamente esule, insieme ai capitani. La Città era dunque più forte di lui e dei capitani. La città era ormai libera, non perchè avesse avuto da Carlomagno o da Ottone gli scabini o i consoli o i giudici o altre siffatte inezie, ma perchè aveva le armi. Non è meraviglia dunque s’essa nelle seguenti generazioni perseverasse a imporre alle città vicine quello stesso primato che Ansperto e Ariberto e gli altri avevano imposto già per due secoli a nome suo. Ma non è poi meraviglia che tutto il cerchio delle città finitime, per necessità di difesa, rimanesse perennemente nemico di Milano. Una volta che le città si erano costituite in potenze militari indipendenti, valeva per loro, quanto per i più vasti imperii moderni quel fatale principio d’ogni diplomazia: gli Stati finitimi sono naturalmente nemici. Alla qual ferrea legge non si sfugge se non per la via delle federazioni, in cui gli Stati trasportano più lontano i termini d’onde ha principio un altro campo di deliberazione politica e d’azione militare. Fra le città nemiche a Milano v’è senza dubbio Pavia, che divenuta città regia dei Longobardi, s’era nel secolo VIII disciolta dal primato ambrosiano (Verri). Ma v’è pur Cremona, città che, non si saprebbe dir come, non ebbe duca dai Longobardi; e anzi fu da loro ostilmente manomessa; e nondimeno ebbe più guerre con Milano che non alcun’altra città. E v’è pur Lodi Vecchio, Laus Pompeia, città più di tutte romana per la sua fondazione, pei nomi delle aque e dei poderi, nè compresa parimenti nel novero dei ducati longobardi. Ma essa doveva respinger la mano che il primate stendeva sulle investiture, vale a dire sugli onori e i possedimenti. E se quell’angusto territorio, allora quasi inculto, chiuso nelle dieci miglia fra il Lambro e l’Adda, si paragona alla diocesi d’Ariberto, la quale si stendeva per una superficie almeno venti volte maggiore dalla foce dell’Olona al Gottardo, si vede qual necessità costringesse Lodi a farsi alleata di tutti i nemici di Milano. Per una simile necessità, Mantova, che solamente ai tempi di Carlomagno (805) aveva potuto ristaurare il suo prisco stato municipale dandosi un vescovo, si moveva contro Verona. E simile necessità moveva Crema contro Cremona; la quale, per un gioco di parole fondato nell’oblio delle antiche lingue, si attribuiva un diritto quasi di accrescitivo. E solo colla tardissima fondazione del vescovato di Crema si restaurò appieno il diritto municipale di quel popolo; che per dialetto, cioè per prima origine, si palesa agnato, non a Cremona, ma a Bergamo e Brescia. Per converso Brescia, città ch’era stata longobarda quant’altra mai, pure non avendo ragione di confini con Milano, ed essendo assai più forte, e lontana, e avvolta in altri vortici d’ostilità, sovente con città nemiche a Milano, non ebbe a contrarre inimicizia seco. Ed è altra legge di diplomazia che, come gli stati contigui hanno occasione a offendersi e mutilarsi, così gli stati alterni tendono a collegarsi contro il comune vicino e nemico. Gli stranieri si stupiscono di vedere fra le città d’Italia quella medesima perseveranza nelle offese che non si stupiscono mai di vedere fra regno e regno, perchè non sanno intendere l’indole militante e regia di quelle città. La prova che la causa delle inimicizie che accerchiavano Milano era nella sua potenza, o per più giusto dire, nella sua ambizione, è questa che molte delle altre città, quando la videro soverchiata e distrutta, e pensarono di non averla più a temere, si collegarono a sollevarla dalla ruine. Ma v’era fra le teocrazie instituite dai Carolingi in Italia un altro più ampio circolo di confini e d’ostilità; la vasta chiesa ambrosiana poneva limite alla crescente potenza di Roma. Già nei primi anni d’Ariberto, l’imperatore Enrico II volle vietare la consuetudine delle nozze che il clero ambrosiano aveva commune col greco. Poco dopo la morte d’Ariberto, Ildebrando, non ancora pontefice, ritentò quella riforma. Si destò una guerra civile, che intrecciandosi alla lutta fra i capitani e il popolo, arse per diecinove anni (1056-1075). Ma l’idea che vedesi sovrastare a tutte quelle battaglie cittadine è sempre questa che Milano non debba apparire ai posteri minore di Roma: «O insensati Mediolanenses, esclama il vecchio Arnulfo,... scripta sunt haec in romanis annalibus. Dicetur enim in posterum subjectum Romae Mediolanurn».Il popolo che, nemico egualmente ai signori della gleba militare e della clericale, parteggiava dapprima per il riformatore, infine quando vide Erlembaldo, il campione d’Ildebrando, a cavallo col vessillo romano in pugno cadere ucciso, applaudì con cantici alla vittoria del suo stendardo municipale, corse in armi a renderne grazie appiè egli altari: «Post hoc insigne trophaeum, cives omnes triumphales personant hymnos Deo ac patrono duo Ambrosio, armati adeuntes ipsius ecclesiam».Retrocediamo tredici secoli, e vediamo in simile emulazione fra Roma e Milano il console Marcello uccidere di sua mano sul campo di Clastidio il re degli Insubri, e l’insubre Ducario uccidere per converso sul campo del Trasimeno il console Flaminio, e trentamila cisalpini affrontare i Romani sul campo di Canne. Al risorgente splendore di Milano Ildebrando oppone la tradizione d’un’altra grandezza antica, ma per sempre tramontata. Egli trasferisce da Milano ad Aquileia il primato della vastissima diocesi di Como. E per lo stesso principio gli avversarj suoi gli oppongono in Roma il patriarca di Ravenna. Nè Roma, nè Aquileia, nè la celtica Milano, nè la pelasga Ravenna debbono l’origine loro e i privilegi della loro natural posizione ai Longobardi o ai Franchi. È d’uopo risalire più altamente il corso dei tempi per rinvenire il principio di quelle influenze morali che si contendono il campo. Ed ogni minor città tien pure le sue ambizioni, ovvero è posta in cimento dalle ambizioni altrui. I due capi supremi della società feudale, anziché poter comporre quelle discordie, le avevano preparate di lunga mano colla guerra delle investiture, che precorse il secolo delle guerre municipali. La libertà delle guerre municipali non era sancita dall’antico diritto del regno, nelle cui diete le città non ebbero tampoco l’infimo seggio; non dal diritto feudale; non dal diritto canonico. Era una libertà eslege, orfana, abbandonata a tutte le smanie dell’ambizione, a tutti gli abusi della vittoria, a tutte le limitazioni della guerra privata e della feudale vendetta. L’idea della parità del diritto nella disparità delle forze, l’idea d’una giustizia federale, era un raggio di luce riservato a illuminare troppe remote generazioni. Il destino sovrastante, inevitabile, ineluttabile era quello d’un’illimitata emulazione. In qualche parte d’italia qualche città si leva a primeggiare sulle città circostanti, a tentare ìl conquisto di quelle ingiuste primogeniture, di quelle fatali egemonie che sono più funeste della sventura, perchè se questa può condurre alla conciliazione delle discordie antiche, esse si traggono dietro catene eterne di gelosie, di discordia, perchè alle egemonie stanche succedono sempre nuove illusioni e nuove egemonie.

IV 
Se nel regno d’Italia la casta dominatrice, soppiantata dai conquistatori franchi, o logorata dalle guerre civili delle sei dinastie che si contesero la corona fino al mille, aveva lasciato deperire le tradizioni militari, anche la casta indigena, ad ogni generazione sempre più imbarbarita, aveva nel tempo stesso quasi obbliato le tradizioni civili. Ma le città emersero da quell’abisso di viltà insieme e d’ignoranza, subito ch’ebbero ricuperata la milizia, e all’ombra sua, la popolazione, l’industria, i beni, le leggi. Nel primo secolo dopo il mille, che si può chiamare l’èra ottava delle città, le guerre tra i primati e le diocesi suffraganee, tra la chiesa ambrosiana e la romana, tra i pontefici e la dinastia salica a cagione delle investiture; e infine la prima crociata, ebbero tutte un’indole teocratica. E alle crociate possono assimilarsi in certo aspetto, se non le prime imprese dei Veneti in Istria e Dalmazia, almeno quelle dei Pisani e dei Genovesi in Sardegna, in Corsica e nelle Baleari, e quelle dei ventuneri Normanni in Apulia e Sicilia. Perocchè combattendo gli Arabi e i Greci come genti di fede nemica, da ciò trassero popolarità e fortuna. Ma già nel principio del secolo seguente, ossia nell' era nona delle città, le guerre si fecero secolari e mondane, benché fossero in parte effetto e continuazione delle rivalità episcopali. Dapprima le città contesero in cerchio colle città finitime, come già l’antica Roma con Sabini e Latini. Esse dovevano ristabilire le giurisdizioni e i confini che la geografia militare dei barbari aveva trasandati e manomessi. Poscia in cospetto del possente Barbarossa le inimicizie vicinali si atteggiarono in due grandi leghe. E finalmente, dopo trent’anni di guerra, la pace di Costanza introdusse nella legge imperiale le città libere. Onde rimase abolito l’antico regno e la dieta degli impotenti magnati che lo rappresentava in Roncalia, innanzi al cui vano giudizio Federico stesso ne’ suoi primi anni aveva citato gli armigeri municipii. A quell’eroica lotta s’intrecciò nel tempo stesso la guerra tra le due milizie. Perocchè le leghe feudali di Castel Seprio e di Castel Marte aiutarono Federico contro Milano, che per tanto non potè nemmeno raccogliere a quel mortale conflitto tutte le forze del suo territorio. Codesta guerra intestina nel seno d’ogni provincia, prolungata per tutto il secolo seguente, trasse seco la distruzione delle castella, la forzata aggregazione dei castellani alla convivenza municipale, e l’abolizione della servitù della gleba. Ebbene, qui vediamo fin da quei remoti tempi le nostre città dare il primo esempio di quella grande innovazione sociale che ora soltanto vediamo iniziarsi in Russia e in Polonia, quale imperiosa necessità di tardo secolo.Tra i molti fatti che Giuseppe Ferrari trasse dalle tenebre delle croniche municipali, e ordinò e chiarì ne’ suoi studi su i Guelfi e Ghibellini, nessuno è più degno d’essere ricordato ai posteri e additato alla malevola Europa di quello ch’ci raccolse in una cronica bolognese: «Nel 1236 furono liberati tutti i contadini; e il popolo di Bologna li comperò a denari contanti; e si decretò sotto pena della vita che non si avesse a tener più alcuno per fedele (cioè schiavo); e il comune riscattò i servi e le serve del contado; e i signori conservarono i loro beni» (V. Il, 231). Chi faccia ragione di sei secoli d’intervallo, dovrà dire che questo fatto supera al paragone anche quel glorioso decreto, col quale il parlamento britannico consacrò cinquecento milioni di franchi a redimere tutti i Negri delle sue colonie. Liberato a questo o ad altro patto o anche a forza il contado, si trovarono con ciò risuscitati i comuni rurali. Le selve e montagne, su cui la caccia feudale aveva steso le sue gotiche interdizioni, o furono rese all’aratro, o partecipate in possesso a tutto il popolo, come già nella lontana era celtica. I servi affrancati, coscritti dalla città in cerne, riebbero anche il virile diritto di portare le armi private che la legge feudale aveva loro interdetto sotto pena di mutilazione o di morte. Tutte le popolazioni vennero unificate sotto il nome della loro città, la cui legge si stese su tutta l’antica sua terra. Fu allora che i consoli milanesi Oberto dell’Orto e Gerardo Negro, per sottoporre a forma di municipale giudizio anche l’arbitrio feudale, scrissero il libro de Feudis; richiamarono la tradizione della forza alla ragione; dettarono dalle mura d’una città d’Italia una legge, alla quale si venne poi confermando tutta la feudalità d’Europa. Nel tempo medesimo, dalle consuetudini dei naviganti e degli artefici si svolse il nuovo diritto commerciale e marittimo, che parve un’esenzione e un privilegio concesso ai mercanti, e ch’era la più pura formula dell’eguaglianza, tra gli individui non solo, ma tra le nazioni che il commercio conduceva a incontrarsi. E così usciva dalle città un nuovo diritto delle genti. E già fin dall’anno 1216, si noti bene la data, apparvero gli Statuti municipali di Milano, che a guisa dei moderni Codici, nati seicento anni più tardi da altra pur simile trasformazione della società, richiamarono le nazioni al diritto romano e alla filosofia che lo aveva inspirato. Infatti Milano, dettando al Capitano del Popolo il giuramento di conservare gli statuti: "Vos, domine Capiranee, jurabitis... quod salvabitis et custodietis ipsum Populum et Statuta" gli ingiunse che, ove questi non bastassero, si conformasse al Diritto Romano: et si defìcerent, servabitis Leges Ronanas (Verri. 1288). La terra, sgombra di servi, libera dalle sbarre e chiuse feudali, non più stabilmente assediata dalle masnade castellane, percorsa da vie la cui custodia, tolta ai vescovadi, fu data alle corporazioni stesse dei mercanti, venduta, comprata, divisa, suddivisa per progressivo influsso del diritto romano in liberi patrimoni, vide diradarsi le foreste, sfogarsi le paludi, ristaurarsi le grandi arginature dei fiumi già intraprese dalle antichissime città etrusche. Ma il dono più magnifico delle città alle campagne fu quello delle generose irrigazioni ch’esse con pensiero provido e con braccio possente e irresistibile condussero, ad onta di tutte le barbare immunità, per vasti territori intorno a Milano, a Novara, a Pavia, a Lodi, a Cremona, a Brescia. Fa stupore, veramente stupore, che siffatte imprese potessero aver principio e compimento in quegli anni medesimi in cui le travagliate città combattevano fra le stragi e le ruine. Perocchè il canale del Ticino si crede intrapreso (1179) tre anni dopo la battaglia di Legnano su le pianure medesime ove fu combattuta. E la Muzza, il più grande dei canali irrigatorii, fu aperto dopo la battaglia di Casorate contro Federico II e i suoi Agrabi (1239). Allora gli statuti diedero alle acque irrigatrici il diritto di libero passo, diritto che alcune delle più civili nazioni non sanno ancora oggidì conciliare colla nuda idea d’un’assoluta proprietà. Epperciò un ingegnere scozzese la chiamò con frase del suo paese la Magna Charta dell’irrigazione (Baird Srnith, Italian irrigation. V.I.).
Con altro pensiero affatto nuovo in Europa, le città condussero le acque con tale proposito, da servire anche alla navigazione (1257). E così si poterono tanto più facilmente diradar le selve su le pianure, in quanto si potè allora supplire con quelle di lontane alpi ai bisogni delle città; e si ebbe dovizia di materie a riedificarle. Il cronista di Bologna scrisse: «Il Comune riscattò i servi e le serve del contado; e i signori conservarono i loro beni». Ma egli non s’avvide, e non s’avvidero allora i popoli, che i signori, oltre al conservare i loro beni, li avevano, per quel riscatto dei servi e delle serve, immensamente accresciuti. Quando la foresta feudale, sparsa qua e là di rari campi e popolata di pochi schiavi e da frotte di porci e cignali, si tramutò in poderi coltivati da livellarii  e mezzadri, che potevano alimentare l’agricoltura coi frutti delle loro fatiche o con prestiti di denaro altrui; quando le vie libere e i liberi fiumi ed i canali condussero i viveri alla città; e queste crebbero per nuove industrie a cui la rude Europa pagava allora tributo, è chiaro che un feudatario, il quale, sullo spazio ove gli avi suoi tenevano cento capi di schiavi, potè dar lavoro a mille liberi agricoltori, e vide ricercarsi le sue derrate a prezzo inudito, si trovò, per influenza delle città, sollevato a favolosa opulenza. E come già fin da quel secolo vediamo in Milano l’imposta prediale estesa a tutte le terre, e attivata l’idea d’alimentare la guerra col credito pubblico, così già fin d’allora vediamo agitarsi la quistione del libero commercio dei grani. In una concordia tra i capitani e il popolo di Milano (1225), si convenne che il Comune dovesse introdurre grano estero; e sembra in meschina misura. Superbi d’una ricchezza che ogni anno per arcana virtù cresceva insieme colle popolazioni e colle industrie, i capitani rurali, fatti cittadini e venuti dalle loro antiche solitudini a stringersi in numeroso e potente consorzio, poterono ripetere impunemente in seno alla città gli usi e gli abusi feudali, recarvi seco le guerre private e le vendette ereditarie che tra loro li dividevano. Alzarono le torri delle loro case contro quelle delle schiatte rivali, e sopra i tugurii del popolo; e dentro quegli inaccessibili claustri si arrogarono d’esercitare le giustizie sommarie, il diritto del taglione, il diritto di pugno, il diritto d’omicidio e di composizione, che la legge longobarda assicurava a chiunque potesse gettare alle famiglie degli uccisi una vile moneta. Quindi sempre maggiore ad ogni generazione la necessità di difendere colla forza l’antica pace municipale:
Fiorenza dentro della cerchia antica... Sen stava in pace, sobria e pudica.

Quindi la necessità d’armare il magistrato. Tale era la violenta natura di questo elemento feudale, cui le città oltremontane non ebbero mai a ricettare entro le loro mura, che alle città nostre parve beneficio il riavere quei tremendi podestà, giudici insieme e soldati, col cui braccio Barbarossa aveva voluto domarle: Mediolano destructa... tota enim in conspectu eius tremebai italia.., in urbibus italiae suis positis Potestatibus (Vinc. Prag.). Ma i podestà, mezzo legisti e mezzo soldati, erano pur uomini della stessa tempra di quelli ch’essi dovevano raffrenare. Anch’essi erano nell’inevitabile alternativa di scegliere tra l’una e l’altra parte nella perpetua guerra tra il pontificato e l’imperio. Quindi la giustizia o esercitata come un’ostilità, o come tale considerata da quelli che dovevano soffrirla. E queste inimicizie propagate continuamente dai podestà medesimi coll’errante loro ministerio di città in città, si tessevano in una vasta dualità 14 che involgeva tutta la nazione. E andavano oltralpe a rannodarsi colle antiche emulazioni delle due dinastie guelfa e ghibelliria; l’esistenza delle quali era ignota alle moltitudini che da loro prendevano il nome, e lo davano in sanguinoso legato ai loro figli. Ma l’edificio municipale, radicato per forza tradizionale nella Città e nel territorio, era così solido e fermo che nè guelfi, nè ghibellini con esilii o confische o delitti o supplicii o battaglie o eccidii mai giunsero per tante generazioni a soggiogarlo e assimilarlo. La città poteva ora esser tratta verso i guelfi ora verso i ghibellini, ora vedersi svellere dal seno una parte de’ suoi figli ora l’altra, ma la cultura municipale continuò pur sempre l’ammirabile sua evoluzione. L’alternativa dei guelfi e ghibellini è accessorio; le due alte influenze che la promossero, erano forze perturbatrici e modificanti; non erano il principio della vita municipale, come sui mari il vento e la corrente non sono il principio pel quale il naviglio galleggia e fende l’onda, nè sono la ragione del suo viaggio. All’età eroica delle città non partecipò tutta la nazione. Nell’Italia meridionale i municipii avevano ben conservato un resto di vita anche quando nella settentrionale erano fatti cadaveri. Ma negli anni stessi in cui Venezia, Pisa e Genova cominciavano le splendide loro imprese nel Mediterraneo, nell’Egeo, nel mar Nero, e che Milano si apprestava nell’ineguale sua lotta col gran potentato, i venturieri Normanni (1041), dandosi per difensori dei popoli, e armandosi d’investiture pontificie che li arrolavano nella gran corporazione feudale, avevano steso un nuovo dominio non solo sull’antica terra di Benevento, ma sulla Calabria e sulla Sicilia. Infine avevano spento anche gli stati liberi d’Amalfi (1131)e di Napoli (1138). Il regno normanno era feudale, ma nell’ultima e meno barbara forma della feudalità. Il suo parlamento non era un consiglio di guerra come i malli dei Merovingi, nè solo un convegno di principi e prelati come le diete dei Carolingi e degli Ottoni. Esso comprese ne’ suoi tre bracci anche i magistrati delle città, ma sotto la finzione giuridica, ch’esse fossero patrimonio domestico del re. Non escluse del tutto l’antico principio italico; ammise alla fonte delle leggi la città; ma la subordinò ad un principio estraneo ed avverso; le assegnò una vita inerme, servile e languida. E di tal modo per un’ampia parte d’Italia si prolungò anche nei secoli moderni l’era bizantina. Un popolo disamorato, indifferente, abbandonò in ogni pericolo i suoi baroni, i suoi prelati, i suoi re; soggiacque sine ira et studio a un mutamento perpetuo di dinastie. La terra, la cui prima conquista costò più sangue ai Romani antichi, divenne il sogno aureo d’ogni venturiero che sperasse vincere al gioco dell’armi una puglia. Qual  divaro immenso fra il vasto e infermo regno, sedente nel mezzo dì tre mari, e l’umile angolo di laguna d’onde Venezia potè resistere a Carlomagno, a Solimano, alla lega di Cambrai! Federico Il, raccolta in dote colla moglie la potenza normanna, volle dilatarla nell’alta Italia dove già possedeva i diritti imperiali e aveva per sè la parte ghibellina. Vinto a Milano e a Bologna e lasciatovi prigione due volte il figlio Enzo, rinunciò alla prova. Ma dalla sua disfatta uscì la dittatura dei Tornani, che abbracciò in breve sette città. La dittatura parve allora il solo vincolo possibile tra popoli che, spinti assiduamente gli uni contro gli altri dalle due rivali influenze, non avevano ancora aperta la mente al concetto d’un diritto federale.
Sulle fondamenta poste dai Torriani, i Visconti eressero uno stato ch’ebbe fino a trentacinque città e si protese fino a Spoleto, accerchiando d’ogni parte la libera Fiorenza; pareggiò quasi in grandezza il regno longobardo, superandolo molto di dovizie e potenza. Ma essi non vollero aver milizia popolare. Nè solo tennero disarmate le città; ma Ottone Visconti, il gran prelato ghibellino, atterrò Castel Seprio, il più formidabil nido di feudatarj, e instituì perpetuo giuramento che i podestà non lo lasciassero ristaurare. Quindi la salvezza dello stato e l’onor della nazione data in arbitrio dei condottieri. Le città che avevano affrontato vittoriosamente i due Federici, si trovarono retrocesse di nuovo a quella condizione debole e passiva che avevano prima dell’arrivo dei Goti, e che doveva trarle nel secolo XVI a nuova desolazione. Ma i Visconti dìsarmarono, non disciolsero, l’instituzione municipale. Le rimase sempre il principio che distingue la città italica dalla città transalpina, cioè l’intima unione sua col suo territorio, e la tenace convivenza dei possidenti, che non vollero mai relegarsi nella campagna che li nutriva, nè sommergersi nella capitale che gli obliterava. Ogni qualvolta l’eredità o la guerra o la ribellione dei popoli o l’infedeltà dei condottieri scompose l’ampio retaggio dei Visconti, la scomposizione si fece per città, come le rocce stratiformi e i cristalli si sfaldano nel senso della loro formazione. Brescia, Verona, Padova or furono dominio dei Visconti, or degli Scaligeri, or dei Carraresi, ora dei Veneti. Ma questo era un mutar di bandiera o di presidio; poco più che un mutar d’alleanze; non turbò, nè smosse l’intima vita municipale. La città minore subì la legge del principe, non quella della città ove il principe aveva stanza. Nessuna potenza lasciò più intera e indisturbata la vita municipale alle città suddite quanto il senato veneto. Poìchè, chiuso in sè medesimo, non esercitò forza d’assimilazione; e i corpi decurionali, quanto più erano opulenti, armigeri e altieri, tanto più avevano caro tenersi in disparte da chi si poteva dir maggiore di loro. Quindi nei tempi più calamitosi la costante adesione delle provincie alla città marittima che apriva alle loro industrie i porti dell’oriente. Quindi la vivacità e varietà delle provincie; ognuna delle quali aveva una vita propria, i suoi statuti, la sua amministrazione, le sue terre, la sua industria, la sua architettura, la sua pittura, le sue lettere, i suoi vizii, le sue virtù, il suo carattere. Ma i veneti, pur come i Visconti, lasciarono alle città le armi private, non curarono d’ordinare le pubbliche. Nè già potevano assentire alle provincie un’interessante partecipazione alla cosa federale quando la negavano anche ai loro concittadini. La vita municipale più intera, più popolare, più culla fu nelle città toscane. Tutti sanno quali splendide vestigia essa lasciò nelle lettere e nelle arti. Essa condusse un dialetto a tal proprietà ed eleganza che ogni altro popolo della penisola e delle isole lo preferse al suo; e ne fece il pegno della vita comune e del comune pensiero. Ma ciò che contraddistingue le città toscane e sopratutto Fiorenza, è l’aver diffuso sino all’ultima plebe il senso del diritto e della dignità civile. Superarono in ciò anche l’antica Atene; la cui gentile cittadinanza aveva pur sempre il barbaro sottostrato della schiavitù. L’artigiano fiorentino fu in Europa il primo che partecipasse alla cultura scientifica. Le arti meccaniche vennero a connettersi intimamente colle arti belle; e queste colla geometria, coll’ottica, colla fisica. L’artista toscano non circoscrisse il suo genio in un’arte sola. Leonardo e Michelangelo furono pittori, scultori, architetti, geometri, fisici, anche poeti, anche filosofi. Perlochè la varietà del loro sapere li condusse, per necessità psicologica, dai particolari delle arti e dei mestieri ai generali della contemplazione matematica. Ed ecco nella tradizione toscana attivarsi a poco a poco nel corso di sei secoli il metodo sperimentale, in cui l’occhio e la mano preparano i primi elementi della scienza all’intelletto, e tutto il pensiero si preordina, non a speculazione superba e sterile, ma a quella che poi Bacone chiamò scientia activa. Già poco dopo il mille, e avanti la prima crociata che cominciò ad aprir gli occhi alle altre genti, Pisa fondò il mirabile e venerando complesso de’ suoi monumenti. Or, dipartendo da quello, si tessa la successione degli artisti scienziati: un Arnolfo di Lapo,19 un Brunelleschi, un Leonardo, un Michelangelo. E si vedrà la tradizione crescente e continua che trapassa dall’arte alla scienza operativa e scopritrice in Paolo Toscanelli20 che fu la guida scientifica di Colombo, in Galileo che s’armò del telescopio, in Torricelli che s’armò del barometro, nell’accademia del Cimento,21 madre di tutte le accademie scientifiche d’Europa. Così si venne a quella scienza esperimentale che si guarda sempre innanzi, e mira sempre alla scoperta, e non si cura di dire: ipse dixit. Questa è infine la vera ed intima forza che solleva l’Europa moderna sull’antica, e sul medio evo, e sulla immobile ed impietrita intelligenza del bramino indiano e del mandarino chinese, i quali tengono fissa la mente solo negli oracoli del passato. Applicata all’intiera vita sociale, essa diviene quella idea del progresso ch’è la fede comune del mondo civile. No; le fonti della scienza viva non sono nell’abito logico, nella precisione scolastica; non sono tampoco nel dubbio di Descartes,22 ma in quella tenace coscienza del fatto che fa dire a Galileo: Eppur si move. Leonardo (1459-1519) fu il primo a scrivere che le scienze metafisiche «le scienze che principiano e finiscono nella mente», non hanno verità. Agli eruditi che rialzavano al suo tempo l’idolo di Platone in faccia all’idolo d’Aristotele egli additò unica maestra l’esperienza: «Questa è dunque mestieri consultare mai sempre; e ripeterla e variarla per mille guise, finchè ne abbiamo tratte fuori le leggi universali». E un secolo dopo di lui, la scuola toscana ripeteva con Galileo la stessa condanna dell’arbitrio speculativo: «Alla manifesta esperienza si debbono posporre tutti gli umani discorsi!... La logica è incapace affatto di trovar nulla di nuovo!». La scuola esperimentale si annuncia divisa dall’opera, e astratta in Telesio, ma dopo Leonardo; in Bacone, ma dopo Telesio; in Campanella, ma dopo Bacone, e tardi; e inutilmente; e con aspetto piuttosto di capriccio che di ragione. Nè la scuola nata ed allevata con lungo amore nelle città toscane si circoscrive ai fatti della natura; ma in Macchiavello s’interna entro i fatti della società umana. Macchiavello è il mezzo termine che
guida il pensiero dai fatti di Tato Livio agli universali di Vico. Gli universali di Vico scaturiscono dall’esperienza: «il vero è il fatto». Vogliano gli studiosi compiere questa ricerca delle fonti della scienza esperimentale nel seno delle nostre città. Ma prima di finir questo saggio torniamo onde si mosse, rammentando di nuovo come pur dalle città nostre uscì quel nuovo circolo di scienza agraria che promette alle nazioni un’indefinita prosperità. La nuova giurisprudenza municipale nata dall’applicazione delle acque all’agricoltura, è sancita nei nostri statuti, si associò nelle nostre università collo studio delle scienze idrauliche, ch’erano anche già invocate a frenar di nuovo i fiumi, e svenar le paludi, e sviare gli interrimenti dalle lagune. Intanto nelle università transalpine, tiranneggiate dalla scolastica, queste scienze e le matematiche stesse non avevano sede propria. E fino ai nostri giorni ebbero quivi a viver come di contrabbando sotto il nome e l’ombra della facoltà filosofica. La grande agricoltura, posta per tal modo in perpetua cura d’un corpo scienziato, si trasmutò in una assidua e gigantesca esperienza. E dal seno medesimo delle città vennero in sussidio alla nuova agricoltura i guadagni dell’industria e del commercio, il quale eziandio trasportò fra le rudi tèssere del contado le sue consuetudini di conteggio, di registri, di bilanci. La cieca pratica agraria si educò in calcolata e variabile industria. La quale sul cader dello scorso secolo passò il mare con Arturo Young e cominciò un nuovo circolo sul suolo britannico, d’onde si propagherà per tutta la terra.


«Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι / µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς» E gli uomini vollero / piuttosto le tenebre che la luce (Gv, III, 19)

Qui su l'arida schiena

Del formidabil monte

Sterminator Vesevo,

La qual null'altro allegra arbor nè fiore,

Tuoi cespi solitari intorno spargi,

Odorata ginestra,

Contenta dei deserti.  […]

Fraterne, ancor più gravi

D'ogni altro danno, accresce

Alle miserie sue, l'uomo incolpando

Del suo dolor, ma dà la colpa a quella

Che veramente è rea, che de' mortali

Madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

Congiunta esser pensando,

Siccome è il vero, ed ordinata in pria

L'umana compagnia,

Tutti fra se confederati estima

Gli uomini, e tutti abbraccia

Con vero amor, porgendo

Valida e pronta ed aspettando aita

Negli alterni perigli e nelle angosce

Della guerra comune. […]

 

Così fatti pensieri

Quando fien, come fur, palesi al volgo,

E quell'orror che primo

Contra l'empia natura

Strinse i mortali in social catena,

Fia ricondotto in parte

Da verace saper, l'onesto e il retto

Conversar cittadino,

E giustizia e pietade, altra radice

Avranno allor che non superbe fole,

Ove fondata probità del volgo

Così star suole in piede

Quale star può quel ch'ha in error la sede.

 

[…] Di ceneri e di pomici e di sassi

Non ha natura al seme

Dell'uom più stima o cura

Che alla formica: e se più rara in quello

Che nell'altra è la strage,

Non avvien ciò d'altronde

Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

 

[…] Ben mille ed ottocento

Anni varcàr poi che spariro, oppressi

Dall'ignea forza, i popolati seggi,

E il villanello intento

Ai vigneti, che a stento in questi campi

Nutre la morta zolla e incenerita,

Ancor leva lo sguardo

Sospettoso alla vetta

Fatal, che nulla mai fatta più mite

Ancor siede tremenda, ancor minaccia

A lui strage ed ai figli ed agli averi

Lor poverelli. […]

 

E tu, lenta ginestra,

Che di selve odorate

Queste campagne dispogliate adorni,

Anche tu presto alla crudel possanza

Soccomberai del sotterraneo foco,

Che ritornando al loco

Già noto, stenderà l'avaro lembo

Su tue molli foreste. E piegherai

Sotto il fascio mortal non renitente

Il tuo capo innocente:

Ma non piegato insino allora indarno

Codardamente supplicando innanzi

Al futuro oppressor; ma non eretto

Con forsennato orgoglio inver le stelle,

Nè sul deserto, dove

E la sede e i natali

Non per voler ma per fortuna avesti;

Ma più saggia, ma tanto

Meno inferma dell'uom, quanto le frali

Tue stirpi non credesti

O dal fato o da te fatte immortali.





L'ordine politico delle comunità (1946)
Qui si presenta l’inizio dell’opera che raccoglie le riflessioni di Adriano Olivetti durante l’esilio svizzero a colloquio con gli ambienti antifascisti. L’opera è un progetto di riforma costituzionale dello Stato italiano «sincretista» in cui idee federaliste e marxiste si fondono in preoccupazioni «elitiste» per la selezione dei rappresentanti politici (come affermato dal prof. Codeddu nell’introduzione all’edizione da cui è tratto il brano, disponibile in versione ebook anche su Amazon.it). È un tentativo di «riqualificazione della democrazia» italiana (come detto da Giuseppe Maranini, citato nell’introduzione di Codeddu). Idea forte della proposta di Olivetti è quella di far coincidere l’organizzazione sociale, politica ed economica con le comunità storicamente e geograficamente determinate, in modo da ridurre iproblemi, le questioni, le decisoni ad una dimensione umanamente gestile, favorendo i processi decisionali, la responsabilizzazione democratica dei cittadini, in un ottimale impiego delle risorse. Olivetti chiama questa entità di autogoverno “Comunità”, ovvero “Comunità concrete”.
Essendo questa riducibilità a scala («misura» lui dice) per Olivetti la più importante delle priorità, la proposta di Olivetti potrebbe essere definita di «umanesimo integrale».
Uno dei passaggi chiave di questo progetto di riforma umanistica dell’Italia è la riforma autonomistica dal paese, «che implica un riassetto territoriale, funzionale e istituzionale del governo locale in Italia, tale da garantirne la capacità di proprie politiche pubbliche, è corroborata – osserva ancora Codeddu nell’introduzione all’edizione del 1946 - dall’accorpamento delle competenze di governo omogenee, grazie all’individuazione delle “funzioni” essenziali attraverso cui si dovrebbe articolare, secondo Olivetti, l’attività di ogni Comunità, di ogni Regione e dello Stato»: «Funzionale [- qui a parlare è Olivetti - ] è un ordinamento in cui la competenza dei vari organi esecutivi procede da una divisione omogenea di attività, esattamente delimitate e tutte sottoposte a un’unica autorità».
«Definiamo come “Ordine politico” l’insieme delle persone che entro la nuova struttura costituzionale sono investite, nell’ambito di ciascuna funzione, di poteri esecutivi (nella Comunità) e di rappresentanza (nella Regione)». Un passaggio in cui Codeddu vede «una vera e propria separazione delle carriere politiche, grazie alla quale sarebbe possibile formare legittimamente, a seconda delle esigenze,  gli organi consultivi e di governo di qualsiasi ente territoriale, dalla Regione alla eventuale federazione di Stati». «L’autore – continua Codeddu - voleva in questo modo suggerire la possibilità di organizzare «uno Stato senza partiti», o meglio, uno Stato con una ridimensionata funzione dei partiti».

L’ordine politico delle Comunità

Servire la pace e la civiltà cristiana
con la stessa volontà, la stessa intensità,
la stessa audacia che furono usate a scopo di
sopraffazione, distruzione, terrore.

Introduzione
La crisi della società contemporanea non nasce secondo noi dalla macchina, ma dal persistere, in un mondo profondamente mutato, di strutture politiche inadeguate.
Tra i principali motivi di turbamento dell’ordine sociale possiamo elencare i seguenti:
a) Dissociazione tra etica e cultura e tra cultura e tecnica;
b) Conflitto tra Stato e individuo;
c) Deformazione dello Stato liberale ad opera dell’alto capitalismo e di sistemi rappresentativi insufficienti;
d) Mancanza di educazione politica, in generale, e di una classe politica, in particolare;
e) Obsolescenza della struttura amministrativa dello Stato;
f) Disconoscimento di un ordinamento giuridico che tuteli gli inalienabili diritti dell’uomo;
g) Incapacità dello Stato liberale ad affrontare le crisi cicliche e il problema della disoccupazione tecnologica;
h) Mancanze di misure giuridiche precise atte a proteggere i diritti materiali e spirituali della Persona contro il potere diretto e indiretto del denaro.
Per uscire da questa crisi complessa, molti intendono costringere il mondo a scegliere tra il socialismo di Stato e il liberalismo (un “vero” liberismo ricondotto alle sue origini), che rappresentano i soli edifici politico-economici coerenti che si conoscano.
Il presente piano è invece un tentativo di indicare concretamente una terza via che risponda alle molteplici esigenze di ordine materiale e morale lasciate finora insoddisfatte. Alla base di questo piano di riforme vi è la concezione di una nuova società che, per il suo orientamento, sarà essenzialmente socialista, ma che non dovrà mai ignorare i due fondamenti della società che l’ha preceduta: democrazia politica e libertà individuale.
Vedremo lungo tutto il corso di questo studio come il principio della democrazia politica possa essere mantenuto integro entro limiti determinati. Accenneremo invece qui a ciò che per noi significa libertà.
La libertà, che non è arbitrio, implica l’esistenza di leggi che reprimano le offese dell’uomo alla società e della società all’uomo e la soluzione della “crisi della libertà” consiste appunto nello scoprire i nuovi vincoli giuridici che la nuova struttura della società ha reso indispensabili.
Stabiliti questi vincoli – e l’atmosfera rivoluzionaria conseguente alla tragedia della guerra ne faciliterà l’accettazione – la personalità umana sarà finalmente libera di manifestarsi entro l’ambito di una collettività che restituisca interamente all’uomo il diritto di esprimere la propria opinione, qualunque essa sia e con qualunque mezzo.
Libertà significa scelta di iniziative economiche, di carriera, di professione, diritto di traferire la sede della propria attività senza incontrare limiti ingiusti, non fondati sul generale interesse e consenso.
Libertà significa ampia possibilità di raffronto di particolari risultati culturali, tecnici, economici, con quelli altrove ottenuti. Il liberalismo economico arriva a un tale risultato grazie al metodo della concorrenza. La nuova società non manterrà tale metodo in modo esclusivo e non gli riconoscerà il merito di essere il solo che possa garantire il progresso culturale e tecnico, ma accetterà anche altri sistemi che raggiungano lo stesso scopo con minori sacrifici da parte dell’uomo.
Libertà, infine, è un atteggiamento dello spirito che intuisce e accoglie sino in fondo ogni imprevedibile umana esigenza.
In mezzo, tra il “non giudicate” del Vangelo e l’amore della verità, vive la Libertà.
Il presente scritto ha origine da disparate esperienze ed umane vicende: prima di essere costruzione teorica fu vita. Esso è soprattutto il frutto dei molti anni di lavoro, dolore, fatica, di tutti coloro che hanno affrontato il durissimo travaglio che fu, sul piano spirituale e sul piano tecnico, la preparazione necessaria al mondo che nasce. L’autore desidera pubblicamente ringraziare gli amici e gli studenti che gli furono larghi di consigli e di osservazioni critiche. Deve infine particolare riconoscenza al dott. Luciano Foà che volle assumersi la fatica della revisione generale del testo.

Né lo Stato né l’individuo possono da soli
realizzare il mondo che nasce. Sia accettato
e spiritualmente inteso un nuovo fondamento
atto a riconoscere l’unità dell’uomo:
la Comunità concreta.

I - Di una società fondata sull’idea di una Comunità concreta
L’idea fondamentale della nuova società è di creare un comune interesse morale e materiale fra gli uomini che svolgono la loro vita sociale ed economica in un conveniente spazio geografico determinato dalla natura o dalla storia.
La Comunità è intesa a sopprimere gli evidenti contrasti e conflitti che nell’attuale organizzazione economica normalmente sorgono e si sviluppano fra l’agricoltura, le industrie e l’artigianato di una determinata sona ove gli uomini sono costretti a condurre una vita economica e sociale frazionata e priva di elementi di solidarietà.
Le Comunità, creando un superiore interesse concreto, tendono a comporre detti conflitti e ad affratellare gli uomini. 

1. Del territorio delle Comunità
Il territorio di una Comunità coinciderà normalmente con un’unità geografica tradizionale che potrà essere il circondario, la diocesi, il distretto, il collegio elettorale.
Ad esso saranno apportate gradualmente le correzioni necessarie a creare unità che abbiano nella natura il loro fondamento e nell’uomo i loro limiti.
Le Comunità italiane saranno costituite nella loro forma definitiva sull’area consentita da una divisione conveniente di ciascuna provincia.

2. La misura umana della comunità
La “misura umana” di una Comunità è definita dalla limitata possibilità che è a disposizione di ogni persona per dei contatti sociali.
Un organismo è armonico ed efficiente soltanto quando gli uomini preposti a determinati compiti possono esplicarli mediante contatti diretti.
Gli eletti di una Comunità non potranno certo conoscere personalmente i centomila componenti della Comunità stessa. Viceversa costoro conoscono assai bene le vicende private di quelli, i tratti del loro carattere, la loro competenza generale o specifica. A sua volta l’eletto potrà trattare in seno alla Comunità analiticamente e mediante contatti e sopralluoghi diretti tutti i casi importanti o che eccedono l’ordinaria amministrazione relativi alla propria competenza e alla propria responsabilità.
Tutti i problemi, in una Comunità, entrano in limiti semplici e facilmente controllabili: il raggiungere un campo sperimentale, un reparto autonomo di una officina, una clinica per fanciulli, un cantiere edile, uno studio d’architetti o di un pittore, è possibile usando mezzi umani o naturali.
La Comunità sarà il dominio dell’uomo, la Ragione è controllabile soltanto col mezzo di un autoveicolo, lo Stato col mezzo di un aereo o di una ferrovia.
Unica, completamente umana, è solamente la Comunità.
 
3. I mezzi tecnici non possono aumentare negli amministratori la comprensione dei fattori umani
I mezzi di trasporto moderni e di telecomunicazione non aumentano che apparentemente i contatti umani. Li spostano solo di luogo, ma il numero delle persone con le quali il potere può avere scambi di idee o di servizi dipende dalla energia nervosa di uomini e dal loro tempo personale giornaliero di lavoro, condizioni che non possono essere modificate da mezzi tecnici. […] 

Da L’ordine politico delle comunità, Nuove Edizioni Ivrea – Engadin Press. Co., Samedan (Stato cantonale dei Grigioni, Confederazione Elvetica), settembre 1945 (seconda edizioni a cura di Edizioni di Comunità, Roma, giugno 1946, in coincidenza con prima seduta dell’Assemblea costituente che aprì i suoi lavoro il 24 giugno e li concluse il 22 dicembre 1947; terza edizione febbraio 1970, in concomitanza con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario), tratto da edizione del 1946 edita da Edizioni di Comunità 2014 (a cura di Davide Codeddu)

Gaetano Salvemini (1873-1957)
Alla "bella gioventù" d'Italia. Testamento politico (1955)
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L’autore scrive a dieci anni dalla fine del fascismo e fa un riepilogo della situazione politica italiana e della sua vicenda politica personale, toccando un po’ tutti gli argomenti, da quelli economici, di politica amministrativa, a quelli di politica estera (ad un anno dal 1956). Nel ripercorre tutta la sua carriera intellettuale e politica, vi ritrova – dopo l’esilio in Inghilterra e negli Stati Uniti – una coerenza morale e intellettuale che descrive nei termini di un riformismo socialista, guidato dal buon senso e declinato su posizioni federaliste e «gradualiste» (fabianiste verrebbe da dire). Ricco di aneddoti e confessioni (lo scontro a distanza con Gramsci, il rovello psicologico per non essere stati in grado di aiutare i lavoratori, i contadini, meridionali a diventare «popolo»). Un testo tra i più belli del grande intellettuale italiano. Un testamento ai giovani d’Italia pieno di amarezze (nel vedere, per esempio, i lavoratori e gli intellettuali del Nord ancora insensibili ai mali del Sud) ma anche di ricordi felici (come quelli del periodo «più bello della mia vita» passati a Lodi, studiando Cattaneo e gli altri federalisti lombardi), di speranza e di fiducia: speranza di poter costruire una nazione italiana moderna, fiducia nella capacità della scuola di creare in una ventina di anni una cittadinanza attiva diffusa.

 

* Titolo originario: Prefazione, al volume Scritti sulla questione meridionale. Pubblicato con il titolo Riepilogo nell’antologia Feltrinelli 1963.

 

Chi leggerà gli scritti che l'editore Einaudi rievoca qui dall'oblìo tenga presente che il primo di essi, quello intitolato Un Comune dell'Italia meridionale, fu pensato negli ultimi mesi del 1896, da un giovane di ventitré anni, che nei due anni precedenti aveva divorato il Manifesto dei comunisti e gli scritti di Marx sulle lotte di classe in Francia nel 1848, sul colpo di stato del 1851 e sulla "Comune," aveva scoperto il suo vangelo nel ‘Materialismo storico’ di Antonio Labriola, e aspettava con impazienza ogni due settimane la Critica Sociale di Turati. Tempo, felice, quando la società comunista si preparava automaticamente nel grembo della società capitalista, grazie alla concentrazione delle ricchezze ed alla crescita politica del proletariato industriale; e chi diffondeva il vangelo della nuova civiltà si trovava nel filone centrale della storia umana, come i cristiani delle prime generazioni erano certi di arrivare a breve scadenza al regno di Dio. […]

 

II marxismo è una droga meravigliosa: prima sveglia gli animi dormienti, e poi li rimbecillisce nella ripetizione di formule che spiegano tutto e non dicono nulla. Quello scrittorello del 1896 dimostra, credo, che quel ragazzo era stato sì svegliato dal marxismo, ma non rimbecillito.  […]

 

Il giovane socialista è stato indignato dagli interventi arbitrari della prefettura nell'amministrazione del suo municipio, ed ha capito che cosa vogliano dire le parole "autonomia comunale."  […]

 

Fra il secondo e il terzo scritto sta il maggio 1898: tumulti annonari in tutta Italia; stato d'assedio, il secondo in quattro anni; i soldati concentrati su Milano dicono di essere stati mandati "a difendere i signori"; a Milano è preso a cannonate un convento, innanzi al quale si affolla la poveraglia aspettando il giornaliero piatto di minestra; re Umberto, che non ha un'intelligenza superiore a quella di un caporal maggiore, premia clamorosamente quella repressione; Anna Kuliscioff e Filippo Turati, la mamma e il papà della “Critica Sociale”, e un'altra dozzina di deputati e giornalisti sono arrestati, processati, e condannati a pene stupidamente feroci per delitti che non hanno commesso.

 

Il giovane socialista diventò allora repubblicano. Non repubblicano per modo di dire, come saranno i socialisti riformisti italiani, e come sarà lui stesso, dopo che il nuovo re, Vittorio Emanuele III, cercherà di farsi ignorare, rintanandosi nel suo guscio. Ma repubblicano militante.

 

Ero non solo socialista e repubblicano ma anche federalista. Nell'inverno del 1898-99, mentre insegnavo storia al liceo di Lodi, scoprii nella biblioteca comunale gli scrittori politici lombardi del Settecento e dell'Ottocento, e Carlo Cattaneo, che sopra tutti com'aquila vola. Anche oggi, mezzo secolo e più dopo di allora, ritorno con gioia e nostalgia a quel tempo come al più bello della mia vita. Con quanta intensità il mio cervello lavorava allora! Aqua, nix, grando, spiritus procellarum. Oh, la gioia e l'ebbrezza di quella gioventù!

 

Diventai, dunque, federalista. Che cosa era il mio federalismo? Era quello di Cattaneo. L'unità nazionale fuori discussione. Ma esercito a reclutamento regionale, e non nazionale; autonomie regionali e comunali; finanza, scuole, igiene, strade, porti, tutte le materie che non fossero politica estera e sue immediate dipendenze, divietate al Governo centrale della repubblica federale e affidate agli Enti autonomi locali.

 

Nella federazione repubblicana saranno risoluti tutti i problemi: anche quelli dell'Italia meridionale. Risoluti da chi? È quel che si domandava quel neofita del federalismo nella rivista repubblicana di Milano Educazione politica. E la risposta era alla mano: dal proletariato e dal partito socialista. Anche il partito repubblicano e il partito radicale erano ammessi a cooperare col partito socialista, perché quello era il tempo delle alleanze fra i "partiti popolari" contro la reazione monarchica. Ma il motore centrale della nuova storia stava in quel partito che inquadrava e guidava il proletariato.

La dottrina federalista metteva a base della organizzazione amministrativa i comuni autonomi, e le "regioni" come nodi intermedi fra i comuni e il Governo federale. Ma la "regione" e le sue funzioni erano rimaste indefinite per tutto il quarantennio precedente nel pensiero di chi si diceva scontento dell'accentramento burocratico; e tali dovevano continuare a rimanere in tutto il mezzo secolo successivo; e tali dovevano entrare nella Costituzione della presente Repubblica italiana in regioni, ma lasciò che finanche i segretari comunali continuassero ad essere nominati dal Governo centrale, e non dai Consigli comunali, come erano nel regime prefascista. E questo fu il federalismo di quella che sarebbe dovuta essere la rivoluzione post-fascista.

 

Se io cerco oggi di rappresentarmi quale idea mi facessi della "regione" fra il 1899 e il 1902, credo di poter affermare che per l'Italia meridionale non pensavo a quel regno di Napoli o a quel regno di Sicilia, che esistevano al tempo borbonico. E non erano neanche quelli, che negli annuari di statistica erano chiamati "compartimenti." Se si fosse trattato, per esempio, di quel compartimento, a cui gli annuari davano il nome di "Puglia," quel giovane non si sarebbe mai sognato di associare sotto un'unica amministrazione regionale la provincia dì Foggia (regione "Capitanata"), la provincia di Bari (regione "Terra di Bari") e la provincia di Lecce (regione "Terra d'Otranto"): obbligare un cittadino di Foggia o di Otranto ad andare a Bari a trattare col governo regionale un affare che lo interessasse, sarebbe parso il massimo degli assurdi. Ma non c'era altro al di là di questa vaga idea negativa. I costituenti del 1946-47 non ebbero della "regione" un'idea più chiara che quel giovane, mezzo secolo prima, ma attaccarono alla cieca la Capitanata con la Terra di Bari, e le tre province calabresi in una "regione," Calabria, che non aveva né nella storia amministrativa nessun precedente, né trovava nella geografia nessuna giustificazione, e tutte le province siciliane in un'unica regione, di cui quelle orientali non sentono nessun bisogno.

 

Se la regione non era definita, l'autonomia comunale era ben definita, ed era domandata come libertà necessaria immediata e primo gradino verso quel federalismo "regionale" che rimaneva nel vago. L'autonomia comunale era la rivendicazione, su cui i "partiti popolari" avrebbero dovuto immediatamente concentrare le loro forze.

 

La questione meridionale era adesso esaminata nell'insieme. E ritornavano a campeggiarvi la piccola borghesia intellettuale, alla quale il giovane non poteva pensare senza disprezzo, e il proletariato agricolo, il quale, quando fosse diventato padrone degli Enti locali per mezzo del suffragio universale, e non fosse stato impastoiato dall'accentramento amministrativo, avrebbe trovato la strada per portarsi al livello del proletariato settentrionale.

 

Allora mi era del tutto ignoto il pensiero di Giustino Fortunato. Questo può parere incredibile. Ma occorre tener presente che Fortunato raccolse i suoi scritti sul Mezzogiorno e lo Stato italiano non prima del 1910. In tutto il trentennio precedente stampò i suoi discorsi parlamentari e i suoi studi in poche copie, che distribuiva gratuitamente, da gran signore, fra gli amici. Io conobbi personalmente Giustino Fortunato non prima del 1909; e solo nel 1910 mi si rivelò in tutta la sua originalità e genialità il pensiero di quell'uomo singolare. Lo avessi conosciuto dieci anni prima, quanta maggiore ricchezza di informazioni e quanto minore ottimismo mi avrebbero accompagnato nel trattare una materia, che era da lui ben più profondamente conosciuta che da me. Non mi sarei limitato, per esempio, nel 1897 a scrivere che l'Italia meridionale non era tutta paese di latifondi, ma una fascia costiera di piccole proprietà intensamente coltivate faceva eccezione a quella regola: avrei saputo e detto che il latifondo copriva soltanto la Sicilia centrale e occidentale e parte della Calabria; oltre alle zone a piccola proprietà intensamente coltivata e a latifondo sfruttato da una agricoltura miserabile, la regola era una piccola proprietà non meno mal coltivata e non meno miserabile che il latifondo, e questo problema era ancora più difficile a risolvere che quello del latifondo, e formava i quattro quinti della questione meridionale.

 

Lessi, anzi divorai, il libro di Nitti, Nord e Sud, uscito nel 1900. Quel libro fece assai per diffondere in Italia la persuasione che una "questione meridionale" esisteva e doveva essere affrontata. Questo merito di Nitti sarebbe iniquo ignorare o attenuare. Io mi occupai di quel libro a lungo sulla Critica Sociale. Nitti era persuaso che "lo Stato" si sarebbe consolidato portando a vita migliore l'Italia meridionale, e perciò aspettava la soluzione del problema da uno "Stato" diventato saggio, cioè da quella certa cosa "lo Stato, " che o era un flatus vocis o era quella stessa borghesia, la quale dava il personale al Parlamento e all'amministrazione, cioè era la vera e propria responsabile della politica dimostrata funesta da Nitti! Io che della borghesia non sapevo che farmene — e anche oggi non saprei che farmene per l'Italia meridionale — aspettavo la salvezza dal proletariato settentrionale che avrebbe dato al proletariato meridionale un regime federale, dal quale sarebbe stata esclusa una borghesia indegna di governare. Il proletariato era la nuova forza motrice della storia e da quella mi aspettavo la soluzione di tutte le questioni, quindi anche della questione meridionale. Ecco spiegato il mio scritto del 1902, nel quale opponevo all'unitarismo amministrativo di Nitti il federalismo di Cattaneo.

 

Il quale federalismo arrivava alle più estreme conseguenze nello scritto sull'Amministrazione municipale di Napoli (quello che porta il n. 8 di questa raccolta). Bisognava dare l'autonomia amministrativa, non solo alla città di Napoli, ma, nella stessa città di Napoli, ai diversi quartieri. Il proletariato doveva essere liberato dalle catene dell'accentramento, non solo nazionale, ma anche municipale; e allora si sarebbe risanata quella che godeva fama di essere la peggio amministrata fra le maggiori città italiane.

 

Nitti continuò ad aspettare la soluzione della questione meridionale da un rinsavimento della borghesia, e nella Costituzione del 1946-47 combatté risolutamente la istituzione delle regioni, nelle quali temeva un pericolo all'unità nazionale. Alla mia volta, io vidi a poco a poco svanire in me la fiducia che il proletariato settentrionale mettesse in pericolo i vantaggi che dallo sfruttamento economico del Mezzogiorno ricavavano tutte le classi sociali, compreso il proletariato, dell'Italia settentrionale.

Tutti gli scritti raccolti in questo libro, dopo quei primi del 1896-1902, documentano la via lungo la quale tutte le mie speranze andavano sfiorendo. Strada lunga assai: durai a percorrerla ben venti anni. La prefazione con cui accompagnai nel 1922 la raccolta intitolata Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano, e pubblicata dal Cappelli di Bologna, riassunse le mie esperienze di quel ventennio.

 

La prima delusione la ebbi sul problema delle autonomie comunali. A cominciare dal 1901 il ministero Zanardelli-Giolitti e poi il ministero Giolitti, con l'appoggio dei deputati radicali, repubblicani e socialisti, inaugurarono, nel Nord, un metodo di governo più rispettoso delle libertà politiche. Il Governo centrale non mise più, nel Nord, bastoni fra le ruote alle Amministrazioni comunali, specialmente quando si trattava di grandi città: Milano, Parma, Torino, Genova, Bologna, Venezia, Firenze erano di fatto autonome. A che scopo allora perdere il tempo a domandare le autonomie? Quanto ai comuni minori del Nord e a quelli del Sud, perché perdere il tempo con tali ultime ruote del carro?

 

Cominciò il Consiglio comunale di Milano, per accordo fra i "partiti popolari," a parlare non più di una Lega per le autonomie, ma di un'Associazione fra i Comuni italiani (cfr. n. 9 di questa raccolta). E la confraternita si mise a discettare su le riforme amministrative più desiderabili in Milano e luoghi consimili.

 

Lo scandalo era grave per quel giovane meridionale, che vedeva quel che succedeva nei suoi paesi delle autonomie comunali, mentre a Milano i radicali, repubblicani e socialisti si baloccavano coll'Associazione fra i Comuni italiani.

Quel che succedeva lo descrisse nella Critica Sociale del 16 dicembre 1902 e si può leggere nel n. 12 degli scritti raccolti in questo volume. E raccoglierò i documenti di quel decennio in un libro su Le elezioni giolittiane nell'Italia meridionale, che spero succeda senza grande ritardo a questa raccolta.

 

Nel 1902 pensavo che spettasse al "proletariato" di metter fine a quella vergogna. Ma il proletariato del Sud non aveva voto. Avrebbe dovuto soccorrerlo per la conquista del voto il proletariato del Nord, cioè il partito socialista del Nord. Quasi tutti gli scritti dal 1902 al 1911 furono una invocazione a quel soccorso.

A me pareva di essere in buona posizione per far comprendere il dovere di quel soccorso. Nelle lotte fra riformisti e rivoluzionari (o sindacalisti), in cui i socialisti italiani sperperavano fiato a non finire, ero un riformista per la pelle, e mi tenevo in disparte dai socialisti meridionali, il cui rivoluzionarismo e sindacalismo vacuo mi faceva ridere quando non mi indignava. Il suffragio universale era una "riforma" domandata in quegli anni clamorosamente dai socialisti belgi e austriaci. Non sarebbe costato un soldo al ministro del Tesoro in Italia. Non avrebbe dovuto affrontare che la resistenza dei partiti conservatori e pseudodemocratici. Mi sarei contentato, se si fosse cominciato dal suffragio universale amministrativo.

Riconobbi esplicitamente, dal 1902 al 1904, che i deputati socialisti del Nord erano giustificati a sostenere la politica di Giolitti, anche se noi nel Sud ne sentivamo crescere il peso. Era necessario che si consolidasse nel Nord quel regime di maggiori libertà sindacali e politiche, che nel precedente decennio erano rimaste in forse o erano state addirittura soppresse. Le organizzazioni socialiste settentrionali, quando si fossero assestate nel nuovo regime di libertà, avrebbero provveduto a soccorrere noi di laggiù, per averci con sé in conquiste necessarie a tutti. In questo mi dividevo nettamente dai socialisti meridionali, che non ammettevano "ministerialismo" per nessun motivo, né allora, né poi, né mai.

 

Con mia meraviglia incontrai prima la indifferenza, poi la ostilità sorda di quasi tutti i socialisti settentrionali. Per debito di giustizia debbo eccettuare prima di tutti Oddino Morgari, uomo di grande cuore, che veniva spesso nell'Italia meridionale e vedeva coi suoi occhi quel che vi avveniva, e poi G. E. Modigliani, che si fece avanti nella vita nazionale verso il 1910, generoso quanto Morgari. Bissolati era per tre quarti favorevole alla mia tesi, perché aveva in me, direi, fiducia, e per un quarto incerto, dato che l'Italia meridionale gli era ignota. Turati era per un quarto indifferente, e per metà contrario, perché il Mezzogiorno d'Italia lo infastidiva: se lui e la "signora Anna" non avessero avuto affetto personale per me, la Critica Sociale non avrebbe pubblicato nessuna di quelle che Turati credeva mie fissazioni. Tutti gli altri personaggi di alto fasto erano più o meno francamente ostili: si erano concimato il loro collegio col corpo elettorale limitato dalla legge del 1894, e vedevano nel suffragio universale un salto nel buio disturbatore e pericoloso.

Gli scritti raccolti in questo libro fanno vedere gli argomenti con cui i più cercavano di scansare quel problema, e quelli con cui io li incalzavo nelle vie e viottoli attraverso cui cercavano di evadere.

 

Una esperienza mi riuscì più penosa di qualunque altra. Eravamo nel 1910. Il Parlamento doveva discutere la legge cosiddetta Daneo-Credaro, che — si diceva — mirava a combattere l'analfabetismo, specialmente nell'Italia meridionale. Mi frequentava Giuseppe Donati, studente universitario a Firenze e democratico-cristiano fervente, sebbene Pio X avesse sbandato la democrazia cristiana; giovane di bellissima intelligenza e di fervido carattere. Io ponevo in lui molta affettuosa fiducia, e lui la meritava (morì in Francia di tubercolosi, cioè di fame, otto anni dopo esservisi rifugiato per non essere ammazzato dai fascisti in Italia). Gli detti da studiare quali effetti avrebbe avuto quella legge nell'Italia meridionale. Donati studiò la materia con intelligenza e tenacia mirabili. E mi portò le conclusioni, perfettamente documentate, del suo studio. La legge combatteva non l'analfabetismo, ma la fame dei maestri; e quello certo era bene. Ma metteva a carico del Governo centrale gli aumenti di stipendio ai vecchi maestri e gli stipendi interi dei nuovi: ora siccome il maggior numero di maestri si trovava nell'Italia settentrionale, ne conseguiva che i pastori della Sardegna, i zolfatari della Sicilia e i braccianti delle Puglie, che avevano maestri in scarsa quantità o non ne avevano affatto, avrebbero pagato gli aumenti e i nuovi stipendi dei maestri che lavoravano nelle scuole dell'Italia settentrionale; bene inteso che, anche qui, le città, meglio attrezzate, inghiottivano bocconi pili abbondanti che i Comuni rurali meno ricchi di scuole. La legge, inoltre, aumentava i sussidi governativi per la costruzione dei nuovi edifici scolastici, ma lasciava sempre a carico dei Comuni una parte della spesa: ora, i Comuni più poveri — cioè quasi tutti quelli dell'Italia meridionale, e parecchi dell'Italia settentrionale — non possedevano i mezzi per le costruzioni che erano favorite dai sussidi governativi; in conseguenza, i Comuni più benestanti dell'Italia settentrionale avrebbero inghiottito i fondi che si voleva far credere sarebbero serviti a costruire scuole contro l'analfabetismo in tutta l'Italia: una nuova iniquità si accumulava sulle antiche.

Quando ebbi preso in esame e controllato i dati raccolti da Donati, andai a Milano a spiegare che bisognava riformare la legge, se si voleva combattere seriamente l'analfabetismo nell'Italia meridionale. Fiasco su tutta la linea! Mi stavano ad ascoltare dissimulando per cortesia fino a che punto li seccavo, e non assumevano impegni di verun genere. In una riunione all'Umanitaria, alla quale intervenne anche il direttore generale dell'Istruzione elementare, Camillo Corradini, cercai di far capire ragione: ben presto mi resi conto che nessuno badava a me, e non feci più perdere tempo a nessuno. La legge Daneo-Credaro rappresentava un vantaggio notevole per i maestri elementari che stavano nei collegi del Nord. Perché dovevano i socialisti del Nord interessarsi di stipendi ed edifici scolastici del Sud, cioè fuori del Nord?

 

Quand'ecco nel 1911 il suffragio universale lo offrì Giolitti, dal quale nessuno se lo sarebbe aspettato. Io definii quella sorpresa come un pranzo offertoci alle otto di mattina. Come comprendemmo in seguito, Giolitti volle con quella concessione assicurarsi l'appoggio dei socialisti riformisti nella imminente conquista della Libia; a tenere in riga, poi, l'Italia meridionale, anche col suffragio universale, ci avrebbe pensato lui, con quei metodi il cui successo era, per esperienza, sicuro. Riuscì con Bissolati: ed io mi illudo che la mia lunga campagna per il suffragio universale non sia stata del tutto estranea alla decisione presa in quella occasione da Bissolati.

Giolitti non riuscì con Turati, nel cui spirito il pacifismo assoluto (tradizionale fra i socialisti) prevaleva su ogni altra considerazione, e il suffragio universale gli diceva poco o niente.

 

Da ora in poi, non avevo più bisogno di domandare ai socialisti del Nord che conquistassero quanto ci era caduto sulla testa come un bolide dal cielo. In questa nuova fase della vita nazionale, i socialisti meridionali dovevano far tutto da sé e non impetrare nessuna elemosina di benevolenza dai socialisti settentrionali. D'altra parte, io avevo perduto ogni speranza di interessare i socialisti del Nord a nessun problema di giustizia che interessasse le classi lavoratrici meridionali.

 

Mi allontanai perciò dal partito socialista senza strombazzare che me ne andavo via: il fatto non aveva importanza da essere annunziato sui tetti. Ma nel 1914, quando un gruppo di socialisti torinesi mi domandò privatamente se avrei accettato una candidatura alla Camera in un collegio di Torino per affermare la solidarietà degli operai del Nord coi contadini del Sud, dissi loro che non avevo più nessun legame col partito socialista, e la loro idea cadde senz'altro, come era naturale.

 

A quest'episodio torinese accenna Gramsci in uno scritto del 1926, che credo meriti di essere ricordato come campione del modo con cui talvolta si scrive la storia. Ecco le parole di Gramsci:

 

Quando, nel 1914, rimase vacante il IV collegio della città [Torino] e fu posta la questione del nuovo candidato, un gruppo della sezione socialista, del quale facevano parte i futuri redattori dell'Ordine Nuovo, ventilò il progetto di presentare come candidato Gaetano Salvemini. Il Salvemini era allora l'esponente più avanzato in senso radicale della massa contadina del Mezzogiorno. Egli era fuori del partito socialista, anzi conduceva contro il partito socialista una campagna vivacissima e pericolosissima, perché le sue affermazioni e le sue accuse, nella massa lavoratrice meridionale, diventavano causa di odio non solo contro i Turati, i Treves, i D'Aragona, ma contro il proletariato industriale. (Molte delle pallottole che le guardie regie scaricarono nel 1920, '21, '22, contro gli operai, erano fuse nello stesso piombo che servì a stampare gli articoli di Salvemini.) Tuttavia questo gruppo torinese voleva fare un'affermazione sul nome di Salvemini, nel senso che al Salvemini stesso fu esposto dal compagno Ottavio Pastore, recatosi a Firenze per avere il consenso alla candidatura: "Gli operai torinesi vogliono eleggere un deputato per i contadini pugliesi. Gli operai di Torino sanno che, nelle elezioni generali del 1913, i contadini di Molfetta e di Bitonto erano, nella loro stragrande maggioranza, favorevoli al Salvemini; le pressioni amministrative del Governo Giolitti e la violenza dei mazzieri e della polizia hanno impedito ai contadini pugliesi di esprimersi. Gli operai di Torino non domandano impegni di sorta al Salvemini, né di partito, né di programma, né di disciplina al gruppo parlamentare; una volta eletto, il Salvemini si richiamerà ai contadini pugliesi, non agli operai di Torino, i quali faranno la propaganda elettorale secondo i loro principi e non saranno per nulla impegnati dall'attività politica del Salvemini." Il Salvemini non volle accettare la candidatura, quantunque fosse rimasto scosso e persino commosso dalla proposta (in quel tempo non si parlava ancora di “perfidia" comunista, e i costumi erano onesti e lieti); egli propose Mussolini come candidato e si impegnò di venire a Torino a sostenere il partito socialista nella campagna elettorale. Tenne infatti due comizi grandiosi alla Camera del Lavoro e in Piazza Statuto, tra la massa che vedeva e applaudiva in lui il rappresentante dei contadini meridionali oppressi e sfruttati in forme ancora più odiose e bestiali che il proletariato settentrionale. L'indirizzo, potenzialmente contenuto in questo episodio che non ebbe sviluppi maggiori per la volontà del Salvemini, fu ripreso e applicato dai comunisti nel periodo del dopoguerra. [da A. Gramsci, La questione meridionale, Ed. Rinascita, Roma, 1951, pp.14-16]

 

In questo racconto è perfettamente vero il particolare che io rimasi commosso (senza "persino") da quella offerta, ed è vero eziandio che andai a Torino per la campagna elettorale: immaginarsi se mi sarei lasciati sfuggire quella occasione per "far propaganda" proprio lì sulla questione meridionale e sulla politica di Giolitti nell'Italia meridionale! Ma è difficile che nel 1914 i socialisti torinesi pensassero a me come loro candidati in Torino, se la mia campagna contro il loro partito era pericolosissima, e se le mie affermazioni e le mie accuse diventavano causa di odio nella massa lavoratrice meridionale contro il proletariato industriale. Quanto alle pallottole contro gli operai che sarebbero state fuse nel ‘19, ’20, ‘21 collo stesso piombo che aveva servito dieci anni prima a stampare miei articoli, queste furono prevedute da Gramsci non prima del 1926.

 

Non essendo sicuro della mia memoria nel 1954 più che non potere essere sicuro Gramsci della sua nel 1926, ho pregato Angelo Tasca, il quale nel 1914 era fra i dirigenti del movimento socialista a Torino, di darmi la sua versione di quel fatto; e lui me l'ha fornita in una lettera del 29 dicembre 1954 che conferma pienamente i ricordi miei:

 

“Non ho letto il volumetto che raccoglie gli scritti di Gramsci su La questione meridionale, ma conosco il passo che Lei cita, e che si trova in un manoscritto del 1926, dove è rievocato, in modo molto infedele, l'episodio elettorale della primavera del 1914. Il gruppo di socialisti, e specie di giovani, che si ritrovarono poi all'Ordine Nuovo erano negli anni che hanno preceduto la prima guerra mondiale lettori ferventi dell'Unità fiorentina. È questo settimanale che ha fissato le loro idee sulla questione meridionale. L'episodio torinese non si sarebbe prodotto senza le campagne dell'Unità, e va posto nel quadro di quelle campagne e delle loro ripercussioni in seno al partito socialista, specie nei suoi elementi giovani, che desideravano, approfittando del Suo insegnamento, rinnovare gli obiettivi e la tattica. Quando si trattò nel 1914 di cercare un candidato per il IV collegio di Torino, alcuni tra noi pensarono a Lei: la lotta sarà stata impostata così sul tema dell'alleanza tra gli operai industriali del Nord e i contadini del Sud, solidali in un'unica lotta antiprotezionista. La formula di Gramsci delle pallottole delle guardie regie fuse col piombo dei Suoi articoli, e dell'odio che quegli articoli avrebbero suscitato contro la massa lavoratrice nel suo insieme, è una punta polemica, che non aveva alcun fondamento, nel 1926, né nel 1914. Se Lei avesse presentato una tesi puramente e ottusamente "meridionalista," a nessuno di noi sarebbe venuto in mente di presentarLa come candidato in un collegio operaio del Nord. Noi eravamo d'accordo con Lei nel combattere sia il caro-grano che il caro-ferro, giudicando che la politica di protezionismo industriale del Nord costituiva un grave ostacolo per lo sviluppo economico del Sud, avevamo preso posizione contro l'accordo tra industriali e dirigenti riformisti dei sindacati del Nord su una politica economica che condannava il Sud all'arretratezza, e nessuno pensava di implicare in una stessa condanna "la massa lavoratrice nel suo insieme." La Sua candidatura è nata, praticamente, da un colloquio fra me ed Ottavio Pastore, allora segretario della sezione socialista di Torino, di cui ho serbato vivo ricordo e che avemmo al caffè della Casa del Popolo di Corso Siccardi. Io Le scrissi allora personalmente, ed Ottavio Pastore si recò non a Firenze per incotrarLa, ma alla Spezia, dove egli conosceva un Suo amico e collaboratore dell'Unità (Ubaldo Formentini) per pregarlo d'intervenire presso di Lei, e spiegarLe le ragioni per cui volevamo sostenere la Sua candidatura a Torino. Lei ci fece rispondere di non essere più iscritto al partito socialista, e che quindi non poteva essere il candidato all'elezione di Torino, malgrado il seducente vessillo che noi volevamo affidarLe. La lotta per far accettare alla sezione locale la Sua candidatura era già difficile in sé, anche se Lei fosse stato tesserato, ma il fatto su cui Lei aveva richiamato la nostra attenzione rendeva impossibile non solo di guadagnarla, ma anche di tentarla; la barriera statutaria ci avrebbe fermati al primo passo. Non rinunciammo subito all'idea; facemmo qualche sondaggio e ci convincemmo che bisognava rinunziarvi: del resto la corrente favorevole ad una candidatura operaia s'ingrossava di giorno in giorno, e contro di essa si urtò anche la candidatura di Mussolini, che fu messa in minoranza negli scrutini preliminari. A questa candidatura Lei è stato completamente estraneo. Lei accettò invece di tenere un comizio a Torino, in favore della candidatura operaia, a campagna elettorale aperta.”

 

Chi legga gli scritti qui raccolti può giudicare se essi diffondevano odio contro il proletariato del Nord e se preparavano il piombo per le pallottole del 1919-22. Mi si permetta di aggiungere che, se ogni idea di mia candidatura sfumò al primo annunzio che io non ero più tesserato, quella idea sarebbe naufragata egualmente, se ci fossimo inoltrati a discutere sulla libertà d'azione, che, secondo Gramsci, i socialisti di Torino mi avrebbero lasciata. Io non ero niente affatto "l'esponente più avanzato in senso radicale" né della massa dei contadini meridionali, né di nessun'altra massa.

 

Ero un libero tiratore, che ci teneva a dirsi socialista riformista, gradualista, dissidente dai riformisti ufficiali, tutto quello che si vuole, meno che "avanzato in senso radicale": mi divideva dagli altri riformisti la loro indifferenza per le sorti dei contadini meridionali, ma non avevo niente assolutamente in comune coi socialisti cosiddetti "rivoluzionari" tanto del Nord quanto del Sud. E Torino era nel 1914 uno dei centri più attivi del socialismo rivoluzionario più intransigente, in attesa di diventare la Mecca del comunismo.

 

Per definire meglio l'orientamento di quel pensiero, a cui bene o male rimasi sempre fedele, aggiungerò che nel 1912, quando la maggioranza del partito socialista, guidata da Mussolini, condannò l'ala riformista capitanata da Turati, nel Congresso di Reggio Emilia, ed espulse dal partito Bissolati e i suoi seguaci, la maggioranza rivoluzionaria vincitrice nel congresso andava in cerca per l’ Avanti! di un direttore, che prendesse il posto di Claudio Treves. Siccome io ero oramai in aperto dissidio coi riformisti alla Turati, i vincitori mandarono Costantino Lazzari ad offrirmi la direzione dell’Avanti! Tanto confuse e incoerenti erano le loro idee su quel che dovevano e non dovevano volere. Io non sarei diventato a nessun patto direttore di nessun quotidiano, perché quello non era stato mai il mio mestiere, e mi ci ritenevo assolutamente disadatto. Ma non ci fu bisogno neanche di toccar tasto. Mi bastò dire a Lazzari che io non solo ero un riformista, ma un riformista di destra e avevo criticato Turati perché non lo ritenevo abbastanza riformista, e non perché io fossi rivoluzionario: con questo solo argomento tagliai la testa al toro.

 

Abbandonai, ho detto, il partito socialista, ma non abbandonai il "proletariato," cioè i contadini meridionali.

 

Senonché questo proletariato aveva nel 1912 cessato di essere l'astrazione marxista, o piuttosto pseudomarxista, del 1896-1902. Lo vedevo ora qual era: una moltitudine di giornalieri agricoli, piccoli fittaiuoli, piccoli proprietari, operai e artigiani, pescatori. Costituivano la grande maggioranza della popolazione; ma erano polvere incoerente, e mancava un tessuto connettivo che la tenesse insieme.

Ecco un comizio in piazza. Non è stato difficile raccogliere mille persone, uomini e donne. Se parlate con un buon senso delle questioni concrete che li interessano nella vita di ogni giorno, vi capiscono perfettamente: le donne prima e meglio degli uomini. Il protezionismo granario, il protezionismo zuccheriero, la tassa sui fabbricati, i danni dell'analfabetismo e i rimedi, i problemi dell'emigrazione, la difficoltà di esportare i prodotti agricoli nell'Europa centrale, tutto, tutto, capivano. Ma io ero solo o quasi solo in mezzo a loro. Finito il "parlamento" (come dicevano con termine che io conosco dai documenti medievali), ognuno se ne andava per conto suo, e non ne rimaneva niente. Quella moltitudine non era divisa in squadre, tenute insieme da caporali e sergenti; non aveva ufficiali inferiori, che tenessero insieme i capisquadra.

 

Concentravo il mio lavoro su due città — Molfetta e Bitonto — perché sarebbe stato assurdo disperdere le mie forze più vastamente. E in quelle due città avevo stati maggiori di uomini degni di fiducia per intelligenza e carattere, e da essi non fui mai deluso. Ma neanche essi avevano sotto di sé gerarchie, che li associassero alle moltitudini. Questa mancanza era meno sentita in Molfetta, dove esisteva una tradizione più antica di attività politiche, ed erano state fatte prove di mutuo soccorso, o cooperative, o Leghe fra i contadini, ed era andata sorgendo una importante cooperativa fra i pescatori, a capo della quale stava un ragioniere intelligente, e ricco di senso pratico. Ma a Bitonto si era agli inizi; e i miei giovani amici — generosi uomini e rimastimi sempre fedeli attraverso ogni vicissitudine — dovevano muoversi in un ambiente di borghesia, della quale credo non ce ne fosse una più marcia in tutta l'Italia meridionale.

In Giovinazzo e Bisceglie, vicinissime sul mare a Molfetta, la situazione era a mezza strada fra Molfetta e Bitonto. In Terlizzi, entro terra, a eguale distanza, da Bitonto e da Molfetta, non conoscevamo neanche un'anima. Le moltitudini potevano, ora, col suffragio universale, riportare vittorie elettorali politiche o amministrative. Ma non davano possibili consiglieri comunali. Era difficile anche ricavarne gli scrutatori per le sezioni elettorali. Finanche i pochi membri delle commissioni comunali per la nomina degli scrutatori erano difficili a mettere insieme.

 

Quella polvere di uomini e di donne aveva bisogno di "guide" per un lavoro permanente costruttivo. Queste guide non potevano essere date che dalla classe degli intellettuali, o da quei proletari, che per dedicarsi ad un lavoro di concetto, cioè ad un impiego politico, dovevano cessare di essere lavoratori manuali per diventare anch'essi intellettuali. Ma nell'Italia meridionale gl'intellettuali erano quello che io sapevo che fossero...

Certo, condanne in blocco sarebbero state inique. Non mancavano giovani che si offrivano di secondarci. Ma erano pochi. E fino a quando sarebbe durato quel buon volere giovanile? Il bisogno non avrebbe indotto anche loro a saltare dall'altra parte della trincea? E allora dove sarebbero andate a finire le quote, che essi riscuotevano dalla povera gente per la lega di resistenza, per la cooperativa, per la sezione politica? Anche parecchi dei loro padri, nel passato, avevano cominciato con buona volontà, e poi erano finiti, come tutti gli altri, giocando la sera a tressette nel "circolo dei civili," e succhiando durante la giornata il sangue della povera gente. Come affidare quella povera gente a possibili succhiasangue?

 

Una sera, che in una campagna del mio migliore amico conversavamo in crocchio sotto il cielo stellato, nella dolce frescura succeduta a una giornata di estate, un contadino mi disse: "Tu non ci hai mai ingannati." Quelle parole, pronunciate nella oscurità, mi si infissero nell'anima, e non l'hanno abbandonata più. Potevo io raccomandare alla povera gente, che confidava in me, come "guide," uomini, di cui temevo assai che potessero ingannarla?

Una volta confidai le mie inquietudini a quell'amico, al quale ho or ora accennato e che aveva della vita locale lunga esperienza, e l'aveva attraversata rimanendo puro e generoso. Gli domandai se mi era lecito continuare a sommuovere quel terreno, senza aver sottomano gli strumenti per consolidarlo in forma nuova, dopo averlo sommosso. Lui mi disse: "Se non ci fossi tu, che fai del tuo meglio per non ingannarli, verrebbe altri che li ingannerebbe di proposito. Non pretendere una perfezione che non esiste neanche altrove. Tu ti sei dedicato a un lavoro lungo che non finirà con te. Altri continueranno la tua opera. Fa' del tuo meglio. Altro non puoi fare." Quelle parole non mi rallegrarono.

 

Alle elezioni del 1913 — non più che un incidente, nella politica elettorale giolittiana — dedicherò una parte di quel volume, che, come ho detto, dovrebbe succedere a questo, e che spero riesca un contributo utile alla storia costituzionale italiana.

 

La prima guerra mondiale interruppe per quattro anni e mezzo ogni lavoro nella politica interna. Ma fece fiorire in me una speranza inaspettata. Ecco un popolo — dicevo fra me e me — sradicato, per la prima volta nella storia, tutto insieme, dalla sua vita tradizionale, e rimescolato per anni col resto del popolo italiano in una vita di pericolo e di sofferenza. Dal 1860 in poi, l'esercito aveva afferrato molti di quegli uomini, e li aveva messi a contatto con compagni di altre parti d'Italia, e in altre parti d'Italia, di cui altrimenti non avrebbero avuto nessuna idea; qualcosa era rimasto di queste esperienze nei loro spiriti, almeno per qualche tempo. Ma esse erano state di breve durata, per i soli mesi del servizio militare, e non per tutti i giovani. Poi, riassorbiti dagli ambienti locali, erano ritornati, su per giù, gli uomini di sempre. Questa volta la loro assenza era durata quattro anni, durante i quali si erano vista molte volte la morte innanzi agli occhi, e per salvare la vita avevano dovuto tenersi bene stretti ai loro compagni, sotto i loro caporali, i loro sergenti, i loro ufficiali inferiori; molti avevano fatte le esperienze di comandare dopo le esperienze di obbedire. I caporali, i sergenti, i tenenti della guerra sarebbero i caporali, i sergenti, i tenenti della pace. La guerra doveva avere prodotto le "guide" per quel popolo così difficile a tenere insieme. Fra i reduci avremmo trovato il personale intermediario che ci mancava. Misi anch'io nel movimento dei "combattenti" speranze, che dovevano purtroppo rivelarsi infondate.

 

Non che la guerra non abbia sconvolto da cima a fondo, al Nord e al Sud, le moltitudini, e data la spinta a giganteschi movimenti collettivi, dai quali sarebbe stato possibile ricavare una rinnovazione completa della vita italiana. Ma, nel Nord, i socialisti riformisti avevano perduto ogni autorità, e i socialisti rivoluzionari non avevano idea di fare altra rivoluzione che di parole. Quanto al Sud, vi si fecero avanti molti buoni caporali e sergenti.

 

Ma gli ufficiali? Ne vennero anch'essi. Due di essi furono eletti deputati in provincia di Bari insieme a me nella lista dei "combattenti." Ma uno era un medico bestione, che sospetto abbia comprato i caporioni della organizzazione provinciale combattenti per essere messo nella lista dei candidati; e durante la campagna elettorale sguinzagliò i suoi agenti a togliermi i voti di preferenza col farmi accusare sotto voce di essere un "bolscevico"; quando venne il fascismo diventò fascista e fu nominato senatore, pagando chissà quanto a chi teneva le chiavi del cuor di Federico. E l'altro — un giovane avvocato, tutt'altro che stupido, il quale aveva davanti a sé uno splendido avvenire professionale e politico, solo che si fosse mantenuto galantuomo — costui, pochi mesi dopo di essere stato eletto, fu travolto in uno scandalo clamoroso, come complice di un briccone che vendeva cacio pecorino sul mercato nero. Lo invitai a dimettersi da deputato per difendersi dall'accusa. Lui aveva altro per il capo. Lo buttai a mare nella Camera, augurando che il processo fosse rapido e la giustizia esemplare. Ma, se nessuno pensò a mettere in forse la mia rettitudine personale, più d'uno fu della opinione che avrei potuto scegliere con maggiore oculatezza i miei compagni di lista. Non li avevo scelti io. Io stesso era stato scelto, perché il mio nome accreditava la lista, e perché si faceva assegnamento sulla mia attività nella campagna elettorale. Quella piccola borghesia intellettuale meridionale, che io avevo sempre disprezzata, si prese un'allegra vendetta su di me con quei due miei colleghi di lista!

 

Non tutte le mie aspettazioni, però, furono tradite. Nella "propaganda" degli anni precedenti la guerra, io avevo sempre denunciato la miseria intellettuale e morale e politica dei più fra i deputati meridionali, che facevano consistere il loro ufficio nel fare raccomandazioni e procurar favori agli elettori, e per essi una croce di cavaliere aveva più importanza che un trattato di commercio o un progetto di legge per le pensioni alla vecchiaia, o la imposta sui fabbricati, che era pagata dai contadini meridionali, e non dai settentrionali, o la tassa sulla miseria, che era pagata dai contadini meridionali che emigravano in America, e non dai settentrionali che andavano a cercar lavoro nell'Europa centrale. Durante la campagna elettorale del 1919, ritornai a battere su quel chiodo.

 

“Voi credete che i deputati — dicevo, e spero che non dispiacerà questo specimen della eloquenza politica necessaria in quegli ambienti — voi siete avvezzi a pensare che i deputati debbano essere gli sbrigafaccende degli elettori. Se dovete portare un paio di scarpe a casa, e incontrate per la strada il vostro deputato, gli dite: “Ecco queste scarpe, portatele da mia moglie.” Se avete una botte di vino, e non sapete come venderla, scrivete a Roma al vostro deputato perché ve la venda. Io vi avverto che di siffatte faccende non mi occuperò mai. Se mi eleggete deputato, vi sarò grato della vostra fiducia, e cercherò di difendere meglio che potrò i vostri diritti. Ma non mi occuperò né di scarpe, né di botti di vino. Se volete non un deputato, ma uno sbrigafaccende, votate per un altro.”

 

Ebbene, in quei mesi che fui deputato, dalla fine del 1919 al principio del '21, non ricevetti dalla provincia di Bari una lettera, dico una sola lettera, che mi chiedesse una raccomandazione o un favore. Scrivo questo con gioia orgogliosa e commossa. Quella povera gente farà miracoli il giorno in cui troverà guide che ne siano degne.

Un'altra esperienza mi riuscì penosissima quanto quella del cacio pecorino, ma per altre ragioni.

Un giorno venne a Roma da un comune della provincia una commissione di muratori ex combattenti, che avevano votato per me. Erano organizzati in cooperativa per i lavori pubblici. Ma non potevano ottenere nessun lavoro perché il deputato governativo del loro paese, che non poteva aspettarsi il loro voto, proteggeva un'altra cooperativa, e il prefetto faceva altrettanto, e questa cooperativa lavorava, mentre i miei elettori rimanevano disoccupati. C'era un lotto di lavori disponibile. I miei elettori lo desideravano per sé. Avrei dovuto accompagnarli al ministero dei Lavori pubblici per far prendere in considerazione benevola il loro giusto desiderio.

Spiegai che non potevo: il ministro non avrebbe accolto la loro domanda, se non gli avessi fatto capire che mi sarei sentito obbligato, verso di lui e verso il Ministero di cui faceva parte, ad una riconoscenza, che avrebbe dovuto manifestarsi negli appelli nominali, o almeno nelle votazioni segrete; questo era l'ambiente; io non intendevo piegarmici. Piuttosto mi sarei immediatamente dimesso da deputato. Quei poveri diavoli se ne andarono disperati. Ma io rimasi più disperato di loro.

Essi domandavano non un favore illecito, ma giustizia. In un'amministrazione, nella quale il favoritismo era legge, il deputato diventava per necessità strumento di favori, anche giusti. Ma questi non potevano essere gratuiti. Lui doveva promettere i suoi servizi ai ministri se questi dovevano dar via libera alle faccende degli elettori. Rifiutando il mio appoggio a quella povera gente, che domandava solo di lavorare, non ero io diventato complice di quel deputato, che proteggeva disonestamente l'altra cooperativa di lavoro? D'altra parte, l'Italia era governata da una burocrazia mastodontica, pigra ed inefficiente, la quale attirava a Roma milioni di pratiche, e le pratiche cosi accumulate erano lasciate a dormire, mentre l'impiegato "competente" sospendeva il cappello all'attaccapanni nella sua stanza per far credere che era uscito per un "bisogno urgente" e se ne andava per i fatti suoi, senza pensare ad altro. Con un regime di questo genere, non era uno fra i doveri del deputato quello di "risvegliare" le pratiche degli elettori? Ma potevo io cambiare linea di condotta?

 

Quella crisi di coscienza mi riuscì estremamente penosa. Dovevo io ripresentarmi candidato per la Camera? Ero io fatto per quell'ufficio?

Altre considerazioni mi conducevano a quella domanda. Oltre a fare il deputato, dovevo insegnare all'Università di Firenze, e non volevo perdere nessuna lezione, e facevo continuamente la spola fra Roma e Firenze dormendo spesso in treno. Quando poi veniva un po' di vacanze o dalla Camera o dalla scuola, dovevo andare nella provincia di Bari per dare qualche aiuto a chi lavorava laggiù. E per giunta avevo sulle spalle un settimanale, L'Unità. Come abbia resistito a tanto lavoro, non so.

 

Nell'autunno del 1920 decisi che non potevo continuare. Composi nel sepolcro L'Unità alla fine dell'anno. E nel gennaio, durante una malattia penosissima, decisi di rinunciare alla Camera. Cosi sarei rimasto insegnante niente altro che insegnante, dedicando alla politica meridionale i margini del mio tempo, come avevo sempre fatto.

 

Poiché ho parlato del mio rifiuto di accompagnare e raccomandare quella la cooperativa al Ministero, aggiungerò che io misi piede una sola volta nella prefettura di Bari. Invece non passava giorno che il quotidiano governativo di Bari non facesse sapere che il deputato "socialista rivoluzionario" della provincia era stato dal prefetto con la commissione di una cooperativa, o con una commissione di disoccupati, o con una commissione di impiegati, o con una commissione di spazzini, o con una commissione di insegnanti elementari, e via via. Lui era un eroico rivoluzionario e io un vile riformista.

Or ecco come fu che andai in prefettura quella sola volta. Nel comune della provincia a cui apparteneva la cooperativa, di cui parlai poco fa, erano state indette le elezioni amministrative. Il partito del deputato "governativo" — il protettore dell'altra cooperativa — prevedeva la sconfitta, dato che i lavoratori stavano in grandissima maggioranza coi combattenti. Il deputato ebbe allora un'idea brillante: fece annunziare che sarebbe riuscito a fare rinviare le elezioni. Questo fatto avrebbe dimostrato clamorosamente che lui era onnipotente, cosi da poter ottenere dal prefetto un provvedimento del tutto illegale, come il rinvio di elezioni già indette, senza nessun motivo di alcun genere, salvo la volontà del deputato "governativo." Se questo trucco fosse riuscito, sarebbe stato chiaro che il deputato dei combattenti — cioè a dire io — non contava un corno, e gli elettori si sarebbero scoraggiati e sbandati, vedendo che contro forza la ragion non vale. Che cosa potevo fare io? Andai in prefettura, e dissi al prefetto che, se lui rinviava le elezioni, io avrei fatto metter fuoco dai contadini alla casa del deputato e a quelle di tutti i "galantuomini" che formavano il suo partito. Come avrei fatto a far bruciare quelle case, dove avrei trovato la benzina per una operazione così vasta, in coscienza non sapevo. Facevo del bluff. Ma il prefetto, che probabilmente non aveva voglia di violare la legge per contentare il deputato governativo, fece vista di credere alla mia ferocia incendiatrice. Può anche darsi, però, che ci abbia creduto. Comunque lasciò le elezioni amministrative al giorno per cui erano state fissate. E i combattenti sconfissero i "galantuomini" e conquistarono il municipio.

 

I fascisti resero impossibile dal 1921 al 1943 ogni specie di organizzazione e di educazione politica fra le moltitudini, tanto nel Sud quanto nel Nord.

 

Nel 1945, non appena superata la crisi del secondo dopoguerra, il filo spezzato si è riallacciato, e la pioggia dei piccoli borghesi intellettuali sulle organizzazioni contadinesche meridionali, si è riprodotta, anzi è diventata intensissima.

Uomini che hanno conoscenza immediata di laggiù, e ai quali dò fede, mi assicurano che la pratica del suffragio universale e delle amministrazioni locali comincia a produrvi qualche frutto. In parecchi luoghi i contadini vanno buttando fuori dalle loro organizzazioni sindacali e politiche gli avvocati e simili insetti, che vi si erano annidati durante il parapiglia del secondo dopoguerra.

 

II fenomeno è limitato ai comuni minori, e si capisce perché: i problemi di un piccolo comune possono essere compresi, con un minimo di buon senso e di buona fede, anche da uomini e donne di cultura assai limitata. Ma, via via che il comune diventa pili popoloso, i problemi crescono in numero, proporzioni e complessità, e il contadino non sa da che parte rifarsi. Ne consegue che nelle città lo sfruttamento delle organizzazioni è oggi, come quarantenni or sono, nelle mani della stessa gente, quale che sia il suo colore politico. Comunque, in tutto il Mezzogiorno caporali e sergenti e anche ufficiali vanno emergendo dalla massa indifferenziata, per quanto in numero ancora esiguo.

 

Gli ufficiali del partito comunista sono educati in scuole apposite: fatto nuovo e destinato, probabilmente, a un grande sviluppo in tutti i partiti. Ma purtroppo lo stato maggiore comunista, nella illusione di affrettare la palingenesi universale, senza lasciarsi frastornare da scrupoli morali, educa i suoi ufficiali e sottufficiali ad una spregiudicatezza, che nell'Italia meridionale non avrebbe bisogno di essere incoraggiata. Facendo di tutt'erba un fascio, sperano provocare in Italia, in caso di guerra, un collasso interno e un movimento di partigiani sulle retrovie dell'esercito occidentale.

Siccome tutto è possibile, non è detto che questo piano non riesca.

Ma la esperienza dimostra che oggi, in Europa, nessun regime comunista può sorgere e mantenersi in un paese dove un esercito russo non sia intervenuto o non sia già alle porte. Un movimento di partigiani comunisti che non fosse seguito da una occupazione russa (più o meno mascherala) lascerebbe dietro a sé nell'Italia un caos spaventevole di rivolte rurali e d repressioni feroci protette da chi domina il mare: un confuso terrorismo di tutti contro tutti, sul quale dovremmo fino da ora mettere il motto Finis Italiae.

Non essendo nato bevitore di sangue, penso che una occupazione straniera sarebbe preferibile a un caos sanguinario di quel genere. E non avendo nessuna certezza di nessun paradiso che si possa raggiungere attraverso nessun spargimento di sangue (anche se inevitabile per altre ragioni) non posso ignorare il fatto che un esercito "liberatore" è sempre un esercito "conquistatore."

Gl'italiani, dopo essere stati "liberati" dai francesi alla fine del secolo decimottavo, sono stati "liberati" dagli anglo-americani-neozelandesi-canadesi-polacchi-marocchini a mezzo il secolo ventesimo. Dato che questa seconda "liberazione" liberò l'Italia dai tedeschi e dai fascisti, e dato che, tutto compreso, in essa hanno avuto parte larghissima gli americani, che sono abituati a lasciar cadere sotto la tavola ossa non del tutto spolpate e abbondanti pezzi di pane, possiamo dire che anche in questo lo stellone non sia venuto del tutto meno al suo ufficio tradizionale. C’è da temere assai che non avverrebbe altrettanto, se una liberazione-conquista fosse dovuta a un esercito di russi, i quali non sembrano cosi ben pasciuti e vestiti come gli americani. Questa è la ragione per cui, dopo aver fatto l'augurio che né gl'italiani del Nord, né duelli del Sud abbiano più bisogno di liberatori, faccio l'augurio che, caso mai, i liberatori vengano dall’Ovest, anzi che dall'Est.

Certamente, lo stato maggiore comunista meridionale è oggi superiore per intelligenza e serietà a quelli che furono laggiù nei primi venti anni di questo secolo i loro predecessori. Per citare un solo esempio, una rivista come Cronache meridionali non sarebbe stata pensabile prima del 1920. Ma sta il fatto che i comunisti cercano ovunque i punti d'appoggio per sollevare il più esteso malcontento possibile, e non per proporre rimedi che attenuino il disagio. E in quel lavoro per reclutar comunque malcontenti promettono tutto a tutti, anche se quel che fanno sperare agli uni fa a pugni con quello che fanno sperare agli altri. E, quando vengono a quei problemi di giustizia distributiva fra italiani del Nord e italiani del Sud, che possono disturbare i beati possidenti dell'Italia settentrionale, i comunisti scantonano: non vogliono turbare quegli operai del Nord che hanno interessi comuni col capitalismo parassitario, di cui gli zulù del Mezzogiorno fanno le spese.

E allora? E allora lasciando l'avvenire dove sta, cioè sulle ginocchia di Giove, ognuno di noi faccia il fuoco che può, con quelle legna di cui dispone.

Se la spregiudicatezza dei comunisti ci ripugna, non possiamo chiudere gli occhi innanzi al fatto che nel movimento comunista, e del Nord e del Sud, militano molti giovani e molte ragazze con un disinteresse e uno spirito di sacrificio degni dell'ammirazione più profonda. Anche sulla fine del secolo passato altri giovani e altre ragazze servirono l'ideale socialista con altrettanta sincerità e abnegazione, credendo anch'essi di lavorare per un rinnovamento totale e immediato della società umana. Questa loro illusione venne meno, via facendo, ma i migliori non passarono nel campo nemico: rimasero fedeli all'ispirazione morale della loro gioventù, e continuarono a servirla come meglio credevano e potevano. Perché non le formule astratte erano il movente delle loro opere, ma quel desiderio di giustizia che era allora avviluppato nelle formule del marxismo, come è avviluppato oggi nelle formule del leninismo-stalinismo. I giovani e le ragazze, che servono oggi il loro ideale in queste nuove formule, sono assai più numerosi di allora; e più le ragazze che i giovani; quelle di sessant'anni or sono potrei contarle su le dita di una sola mano.

Non è assurdo pensare che questa bella gioventù, col passare degli anni, non vedendo arrivare l'ora del nuovo regno di Dio, riconosca di essersi messa per una via senza uscita, e, lungi dal prendere la via opposta, ritorni al socialismo tradizionale. E vi ritorni con quel senso delle realtà, che essi vanno acquistando nella pratica minuta del comunismo. Quella pratica mancò sempre ai socialisti — e riformisti e massimalisti — e quella mancanza spiega in costoro le sconfitte di ieri, e la inettitudine di oggi, e la probabile totale scomparsa in un prossimo domani.

Dalla speranza che quella gioventù ritrovi la via, che sola può condurre, non al paradiso una volta per sempre, ma ad un avvenire migliore dell'oggi, bisogna dedurre la sola condotta che sia lecita a chi non "fa politica" per guadagnarvi su personalmente:

1) dire sempre a quella gioventù la verità, spiegandole che cammina su falsa strada, senza passargliene una sola;

2) non partecipare a nessuna "apertura" né verso il partito comunista, né verso alcun compagno di viaggio o idiota utile del comunismo;

3) non fare nulla che possa favorire una vittoria elettorale comunista, precipitando quella crisi, in fondo alla quale non si troverebbe che la fine dell'Italia;

ma 4) non associarsi a nessun gruppo politico, il quale, col pretesto della lotta contro il comunismo abbia venduto l'anima al clericalismo fascista monarchico;

5) tenersi sempre su quel terreno del socialismo gradualista, ma energico a volere quel che deve volere, che è il solo su cui possono ritrovarsi coloro, che vogliono liberarsi dalle pastoie comuniste; 6) pur marciando sempre divisi dai comunisti, resistere ad ogni tentativo che altri faccia per mettere fuori legge il partito comunista, cioè per impedire ogni evoluzione della migliore gioventù comunista verso una politica di buon senso;

e 7) prendere colpi e da destra e da sinistra, ma non cedere mai né a destra né a sinistra.

 

Se qualcuno di quei giovani o di quelle ragazze, nel cui ritorno al disprezzato socialismo umanitario e gradualista, io metto ogni speranza, leggerà questi scritti, io vorrei si rendesse conto che, se il federalismo assoluto del 1898-1902 ha dato luogo, negli scritti del 1945 e 1946, ad un federalismo rettificato, ciò è avvenuto in base alle esperienze fatte nell'Italia meridionale fino al 1922, e fuori d'Italia nel trentennio successivo. Neanche negli Stati Uniti, che Cattaneo tenne a modello, la flotta e l'esercito sono divisi fra i quarantotto stati della Federazione, o in Inghilterra fra le regioni (che li sono chiamate "nazioni") col reclutamento regionale. In un paese come l'Italia, non conviene rinunziare a quel tanto di educazione politica che si può ottenere in un esercito a reclutamento nazionale — finché un esercito deve esserci, e pare che passerà molto tempo prima che ne possiamo fare a meno, in Italia come altrove.

 

Venendo all'amministrazione civile, la soppressione dei prefetti fu proposta da Luigi Einaudi nel 1944, tenendo sott’occhio l'Inghilterra, la Svizzera e gli Stati Uniti, nella cui fauna politica l'animale prefetto è sconosciuto. (Lo scritto si può leggere nella raccolta recentemente curata da Ernesto Rossi: Luigi Einaudi, Il buon governo, Laterza, Bari 1954, pp. 51 sgg.) L'idea di Einaudi era anche mia mezzo secolo fa. Ma in mezzo secolo un uomo non vive solamente: impara anche. L'idea di abolire senz'altro i prefetti sarebbe applicabile oggi, nella stessa Italia settentrionale e centrale? Si potrebbe qui fare del tutto a meno di un funzionario designato dal Governo centrale per dirigere la polizia e mantenere l'ordine? Sostituiremo ai carabinieri le guardie municipali? Creeremo milizie provinciali o regionali? E, quando una provincia o regione andasse soggetta a seri turbamenti o ne fosse minacciata, chi mobiliterebbe le forze di polizia e anche l'esercito, se non ci fosse a darne l'ordine un funzionario civile, che rappresentasse il Governo civile centrale? Il comandante della divisione o del corpo d'armata? Sarebbe peggio che andar di notte.

Mentre non so vedere un'Italia in cui il Governo centrale manchi di funzionari, i quali alla periferia comandino la polizia e mantengano l'ordine, vedo invece che un regime di autonomie amministrative nei comuni e nelle province dell'Italia settentrionale e centrale è indubbiamente possibile.

Solamente, anche qui non è detto che tutti i comuni siano specchi di buona amministrazione. Sui comuni minori e specialmente sui rurali, una certa sorveglianza può essere necessaria; e anche dove una sorveglianza si può risparmiare, una qualche opera di consiglio sui miglioramenti da apportare nei metodi amministrativi sarà sempre desiderabile: non si può pretendere che i sindaci e i segretari dei comuni piccoli si tengano informati sui risultati a cui via via giungono nei loro studi i tecnici dell'amministrazione. In Inghilterra il Home Office compie questa necessaria e benefica opera di consiglio, senza avere il diritto di imporre la sua volontà con lo scioglimento alle Amministrazioni locali riluttanti.

Insomma, un funzionario delegato dal Governo centrale a sorvegliare e consigliare le Amministrazioni locali minorenni (oltre che a comandare le forze di polizia e mantenere l'ordine e ristabilirlo in caso di bisogno) mi sembra necessario anche nel Nord e nel Centro d'Italia. Si potrebbero raggruppare più province sotto lo stesso prefetto, dato che i poteri di costui su le amministrazioni locali verrebbero assai ridotti in un regime di autonomie. E, beninteso, anche ai comuni minorenni il prefetto dovrebbe dare consigli e non ordini, né scioglierne le Amministrazioni ad arbitrio. Il prefetto, che accertasse reati, dovrebbe denunciarli alla magistratura ordinaria, e solo quando questa ne ammettesse la necessità, un'Amministrazione locale potrebbe essere sciolta ed affidata "pro tempore" ad un curatore designato dalla stessa magistratura. Qualora invece fossero accertate insipienza o trascuratezza senza dolo, il prefetto dovrebbe informarne pubblicamente la cittadinanza interessata; e, se questa volesse continuare a tenersi Amministrazioni inette, padronissima di farne le spese, finché attraverso l'esperienza non avesse acquistato il senso comune.

Questi stessi principi dovrebbero essere applicati nell'Italia meridionale. Ma qui sarebbe necessario l'intervento dei prefetti in molti più casi che nell'Italia settentrionale e centrale. Un autonomismo completo, quale si ha in Svizzera, in Inghilterra, e negli Stati Uniti, significherebbe nell'Italia meridionale abbandonare le Amministrazioni locali al malfare sfrenato della piccola borghesia intellettuale. Col tempo, via via, l'esercizio del diritto elettorale e la pratica dell'amministrazione consentirà alle classi contadine — sia pure attraverso molti errori — di elaborare gerarchie intellettualmente e moralmente capaci. Questo sarebbe lavoro lento — assai lento — e sarebbe ritardato dal malaffare delle amministrazioni borghesi. Ma Roma non fu fatta in un giorno.

Per le scuole secondarie, sarei molto meno propenso che non sessanta anni or sono all'idea di abbandonarle agli Enti locali. La esperienza dimostra che le scuole governative — anche se non sono mai state una meraviglia di buon andamento — hanno sempre funzionato, in tutta l'Italia e specialmente nell'Italia meridionale, meglio — o meno peggio — che le scuole amministrate dagli Enti locali — salvo che nelle grandi città del Nord. Quanto alle scuole private, meglio non parlarne. Le stesse tenute da ordini religiosi, che una volta erano degne di rispetto, almeno per l'insegnamento del latino, oggi sono diventate quasi tutte un'ignominia, come le scuole private laiche. Abbandonerei le scuole secondarie ai soli grandi comuni del Nord e del Centro, meno forse Roma, che è Mezzogiorno autentico, anzi peggiorato.

Quanto alle scuole elementari, mi sembra, oggi come ieri, che si dovrebbero restituire a quei soli comuni in cui l'analfabetismo sia inferiore al dieci per cento; nei comuni che direi minorenni, nei quali l'analfabetismo è superiore a quel limite, l'amministrazione ne dovrebbe essere affidata a provveditori governativi, fino a quando l'analfabetismo non fosse ridotto a quel livello. Beninteso, il provveditore dovrebbe sostituire le Amministrazioni locali solo dopo che la magistratura ordinaria abbia riconosciuto la necessità di siffatto provvedimento.

Se si ritiene che la magistratura ordinaria non debba essere aggravata con un lavoro che finora non le competeva, si possono istituire nuove sezioni nel Consiglio di Stato, a cui sarebbero demandate le materie riguardanti le amministrazioni locali.

Si intende che insieme con le funzioni, che dovrebbero essere trasferite dal Governo centrale agli Enti locali, dovrebbero essere trasferite anche quelle fonti tributarie, che oggi sono usurpate dal Governo centrale. Gli scritti nn. 56-67, posteriori al 1945, raccolti in questo volume, daranno, spero, qualche campione, per quanto rudimentale, delle idee che mi sono state suggerite dalla osservazione di quanto avviene in Inghilterra e negli Stati Uniti.

Insomma, federalismo con le cautele necessarie ad evitare due pericoli (meno gravi nel Nord e più gravi nel Sud):

1) che il malcostume amministrativo locale sia aggravato dalla cessazione di ogni sorveglianza;

2) che questa sorveglianza serva ad accumulare la corruttela centrale sulla corruttela locale.

Con cautele di questo genere, si dovrebbe decentrare anche l'amministrazione nella città di Napoli. Mi si informa che i comunisti hanno già diviso quella città in sezioni, ad ognuna delle quali è addetto un comitato locale: hanno capito che per arrivare agli ultimi capillari di una così grossa popolazione, e farne una forza attiva in politica, è necessario avvicinarle più che sia possibile l'amministrazione degli interessi immediati.

A questo punto qualcuno mi dirà: "Non sei, dunque, tu quel desso, che, fra il 1900 e la prima guerra mondiale, fece una campagna cosi ostinata (e solitaria) per il suffragio universale? Non era quella campagna basata sulla aspettazione che le popolazioni meridionali avrebbero trovato, attraverso l'uso del suffragio universale, la via per risollevarsi dalla loro depressione? Hai messo dell'acqua nel vino del suffragio universale?"

Son io quel desso, e nel suffragio universale non ho messo nessun’acqua. E continuo a ritenere che il suffragio è la sola arma politica, da cui il contadiname possa ricavare vantaggi, via via che imparerà a farne uso. Anche cosi come è oggi, quella massa anonima ed imponente, per il solo fatto che può votare, esercita una pressione di paura sui politicanti di tutti i partiti. Né democristiani di destra e di sinistra, né comunisti, né socialisti, né liberali di destra o di sinistra, parlerebbero tanto di questione fondiaria e di questione agraria, se il contadiname meridionale non possedesse il diritto di voto. Solamente il processo sarà molto più lungo che non credessi una volta. La macchina sociale, ha scritto Cattaneo, è lenta a muoversi, e non si muove senza gran rumore, e molte volte fa un gran rumore e non si muove affatto.

 

In tutti gli scritti qui raccolti, l'aiuto degli Italiani del Nord è invocato perché dieno una mano a chi si trova laggiù a combattere con difficoltà che al Nord sono sconosciute.

Quando Umberto Zanotti-Bianco, un piemontese-inglese, e i suoi amici settentrionali fondarono la Società del Mezzogiorno sotto il patrocinio di Pasquale Villari e Leopoldo Franchetti, dopo il terremoto calabro-siculo del 1908, mi si aprì il cuore alla speranza. Ma, per quanto quella Società abbia fatto miracoli coi pochi mezzi di cui disponeva, e abbia ripreso il lavoro dopo la tempesta fascista, la sua opera è stata, ed è, una goccia nel deserto. Ed è rimasta senza imitatori. Gli apostoli sono sempre stati scarsi a questo mondo, e non si può fare su di essi un assegnamento continuativo.

L'esperienza prefascista e postfascista ha dimostrato che i settentrionali hanno troppi problemi sulle braccia a casa loro per potersi occupare di quanto avviene in casa altrui, quando non profittano consapevolmente dell'avvilimento altrui.

Con tutto questo, io non so abbandonare ogni speranza.

Ho osservato sempre che in quelle città meridionali, nelle cui scuole secondarie ha insegnato, magari cinquant'anni or sono, un uomo di vero valore intellettuale e morale, sono sempre rimasti alcuni discepoli, che non hanno finito con andare a giocare la sera a tressette nel circolo dei "galantuomini," non hanno preso parte a nessun carnevale elettorale, sono venuti all'aperto, facendo il loro dovere di cittadini e... sono stati schiacciati.

Sarebbe possibile moltiplicare nell'Italia meridionale gli insegnanti-uomini? Non si tratterebbe di aspettare risultati immediati, ma lasciare che la loro opera — seme sotto la neve — fruttifichi col tempo: mettiamo fra una generazione. Non sarebbero prodotte da essi col tempo — mettiamo fra una generazione — in numero sufficiente "guide" che si metterebbero a capo delle moltitudini lavoratrici contro una borghesia marcia che deve sparire? In quali partiti quelle "guide" militerebbero, non importa. Quello che importa è che esse aiuterebbero quella popolazione a diventare popolo.

A costo di far ridere tutto il mondo alle mie spalle, suppongo che un gruppo di cittadini settentrionali si metta a predicare che i primi vincitori dei concorsi nazionali per le scuole secondarie dovrebbero essere mandati a coprire le cattedre che via via rimanessero libere nelle scuole meridionali per i primi cinque anni della loro carriera, pagati con stipendio doppio per indennità di disagiata residenza, e ogni anno dovrebbe essere contato loro come due nel computo della pensione; dopo quei cinque anni, avrebbero il diritto di essere trasferiti in sedi da loro scelte, quando non preferissero rimanere laggiù. Se quel gruppo di italiani del Nord, a furia di battere e ribattere su questo chiodo, arrivasse a persuadere un numero sufficiente di italiani, e imponesse al Governo — chiunque esso fosse — quel provvedimento scolastico, venti anni di siffatto regime non rinnoverebbero le classi dirigenti dell'Italia meridionale?

Questo non risolverebbe su due piedi la questione meridionale. Ma in vent'anni aiuterebbe a risolvere una delle questioni meridionali, la più essenziale di tutte: la preparazione di una classe dirigente meno sciagurata. Non affermo che dovremmo domandare quel provvedimento scolastico e starcene poi con le mani in mano ad aspettare che produca i suoi effetti fra una generazione. No davvero. Continuiamo pure, ognuno per conto proprio, ad agitare i problemi dal cui viluppo è formata la questione meridionale; continuiamo pure, ognuno per conto proprio, a seguire quelle vie e quei metodi che crediamo migliori; ma mettiamoci d'accordo almeno su questo che, dopo tutto, né ha nulla di rivoluzionario, né impedirebbe nessuna rivoluzione, se questa fosse realmente possibile.

 

Maggio 1955

                                                                                                              Da Scritti sulla questione meridionale, Einaudi, Torino, 1955, pp. VIII-XLI riprodotto in Opere di Gaetano Salvemini, IV Il Mezzogiorno e la democrazia italiana, Vol. II, Feltrinelli, Milano, 1963, pp. 668-692


Altri scritti (1896-98)

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Per il giornale quotidiano (1896)

I. Perché un giornale socialista?

 

La necessità di un giornale quotidiano per il nostro partito non può essere messa in dubbio da nessuno di noi. Mentre il potere esecutivo non sa quel che si voglia e tira innanzi cedendo alle suggestioni del momento e il potere giudiziario sta sempre al finestrino fiutando il vento che spira, e il parlamento o resta chiuso o sta malamente aperto, la stampa è oramai il solo potere dello Stato che conservi un’ultima apparenza di vitalità. Essa è il solo mezzo, che abbia l’opinione pubblica per far sentire la sua voce e un partito finché non possiede un organo proprio potente e diffuso non può dire di essere un partito serio e rispettabile. Per noi poi questa necessità è più forte ancora che per gli altri, perché noi fondiamo tutta la nostra tattica sulla propaganda continua e finché non avremo un giornale nostro quotidiano, che ci permetta di battere sempre il chiodo quand’è caldo, senza dover aspettare per criticare gli avvenimenti una intera settimana – lungo spazio di tempo nella turbinosa vita moderna – noi non potremo mai spandere le nostre idee quanto sarebbe possibile e necessario. Nessun buon socialista dovrebbe a mio parere restar tranquillo e contento finché un bisogno di questo genere non sia stato soddisfatto.

Però un giornale quotidiano, se deve sorgere, deve essere tale da poter vivere seriamente e stabilmente, la necessità stessa, che ne sentiamo, deve obbligarci ad essere oltre ogni dire prudenti nell’impiantarlo, a considerare minutamente tutte le difficoltà dell’impianto […]

 

II. Dove pubblicarlo?

 

In quale città dovrà essere pubblicato il nostro giornale quotidiano? Roma, risponderanno moltissimi miei lettori.

Nossignore, ribatto io. Roma è il luogo meno di tutti idoneo alla vita di un giornale socialista. Un giornale pubblicato a Roma, sempre supposto che fosse scritto bene e più ricco di notizie che gli altri giornali romani, arriverebbe alle 6 di mattina a Firenze e a Napoli; alle 11 a Bologna e a Foggia. Fino a questi punti potrebbe concorrere con i giornali locali […]

 

Ma da Bologna e da Foggia in poi la concorrenza diventa impossibile; al di sopra di Bologna il giornale romano è stato prevenuto dai giornali lombardi e quando arriva è vecchio e sfatto: al di giù di Foggia è stato preceduto di quattro e più ore dai giornali napoletani. […]

 

L’Italia è un paese troppo lungo; un solo giornale, mettiamocelo bene in mente, non può conquistarla tutta; ce ne vorrebbe almeno tre: uno a Milano, uno a Roma, uno a Napoli.

Ciò posto, un giornale socialista oggi dove è meglio che sorga? Scartiamo subito Napoli: in città il giornale si venderebbe poco; meno nelle province meridionali, in tanta parte apati, corrotte, indifferenti, ignoranti, in cui il socialismo non esiste, […]

 

Resta ora la scelta fra Roma e Milano.

Delle due zone quale è la più pronta ad accettare un giornale quotidiano socialista, a saturarsi di esso, a procurargli uno smercio esteso e costante? Senza dubbio quella di Milano. […]

 

Ma, si potrebbe opporre, a queste mie idee, in questo modo tutta l’Italia da Firenze in giù resta tagliata fuori della nostra azione; in questo modo i paesi che più avrebbero bisogno della nostra propaganda sarebbero quelli più di tutti lasciati all’oscuro.

Sissignori, rispondo io. L’Italia da Firenze in giù è per il socialismo un muro solidissimo e per ora incrollabile; da Firenze in su è un muro che cade da tutte le parti e che con altre due buone spallate bene e a tempo assestate finirà coll’andare a terra. Nell’Italia meridionale lasciamo che lottino i nostri sparsi compagni coi giornali settimanali, colla propaganda individuale, con tutti i mezzi che il terreno arido e ribelle alla coltura socialista può offrire. Il giornale quotidiano deve esser conseguenza, non causa dello sviluppo del partito; quando lo sgretolamento sarà cominciato anche nel Mezzogiorno – e ce ne vorrà del tempo perché incominci, - quando gli sforzi dei nostri pochi compagni avranno cominciato ad aprire la breccia nel campo nemico, allora sentiranno essi stessi il bisogno di un giornale quotidiano e se lo creeranno. […](1)

 

 

Da “La Giustizia. Organo regionale dei socialisti emiliani”, 19 aprile e 31 maggio 1896, firmato “Un Travet”, riprodotto in Opere di Gaetano Salvemini, IV Il Mezzogiorno e la democrazia italiana, Vol. II, Feltrinelli, Milano, 1963, pp. 3-8

 

Note

(1) Il giornale, con il nome Avanti!, sarà poi impiantato a Roma e uscirà (direttore Leonida Bissolati) il 25 dicembre 1896. 

(2) Ignazio Travet (“travetto”, “travicelletto”) è il protagonista di una commedia in lingua piemontese "Le miserie d'Monsù Travet" scritta da Vittorio Bersezio (intellettuale liberare, eletto deputato della Sinistra costituzionale per la circoscrizione elettorale di Cuneo tra 1865 e 1870) e pubblicata nel 1863 (tradotta in italiano nel 1871) e disponibile su Youtube all’URL https://www.youtube.com/watch?v=ujE6w8Yt9Pc&feature=relmfu (parte prima) e https://www.youtube.com/watch?v=BWz8WEy0w8o (seconda parte). Il Travet «nella commedia di Bersezio è un impiegato pubblico che sul posto di lavoro subisce le vessazioni di un capoufficio che lo odia, vive la continua frustrazione di vedere cani e porci venir promossi prima di lui e svolge compiti monotoni e ripetitivi. Ciononostante nelle proprie mansioni è diligente, puntuale, e affronta il dovere con vero spirito di sacrificio; per di più nemmeno a casa le cose vanno meglio, per il signor Travèt, visto che anche lì subisce maltrattamenti da parte di moglie, figli e domestica. Così il travet diventa per antonomasia il piccolo burocrate dedito tanto al proprio lavoro quanto all'ingoiare rospi con modestia. Una figura che anche a centocinquant'anni di distanza dalla prima de "Le miserie d'Monsù Travet" non è certo sparita. Una parola bella e incisiva che veramente può impreziosire un discorso» (https://unaparolaalgiorno.it/significato/travet).



 

Qui abbiamo raccolto (riducendo per motivi di spazio) alcuni interessanti scritti del 1897- 98 in cui Salvemini, «il più colto e il più armato» dei socialisti (secondo Filippo Turati), critica la situazione del partito, la sua strategia, e suggerisce alcune linee di metodo che hanno ancora oggi forte attualità. Nel 1897-98, dopo aver insegnato latino in una scuola media di Palermo, dal 1896 Salvemini è professore di Storia e Geografia nel Liceo Torricelli di Faenza.

Qui Salvemini ricorda l’importanza degli studi socio-economici e statistici, suggerisce di cercare i voti non con promesse elettorali irrealizzabili ma con un lavoro che dia priorità all’economia e alla politica amministrativa, per un partito fatto di lavoratori, ben formati, con forte coscienza politica, portatori di una cultura politica nuova, responsabilizzati e capaci di agire in autonomia, per una lotta di classe focalizzata su temi concreti e organizzata – come sostenuto già da Giuseppe Ferrari – nei diversi «ambienti sociali» (gli spazi della socialità storicamente definitisi) d’Italia: localmente, nei territori, a livello regionale e cittadino.



Un comune dell'Italia meridionale: Molfetta (1897)

Vorrei in questo studio descrivere le condizioni economiche, politiche ed elettorali di una città, che conosco per esservi nato e vissuto a lungo per averne seguito sempre anche da lontano lo sviluppo.

Già da parecchio tempo il Turati ha osservato che finché non avremo un buon numero di lavori speciali, in cui sieno minutamente descritte le condizioni economiche delle singole regioni italiane, e le forze e i programmi dei partiti borghesi locali, e lo stato intellettuale e morale della popolazione, la questione della tattica e della propaganda resterà sempre allo stesso punto: noi continueremo nei congressi e nei giornali a parlare di grande e piccola proprietà, di colonato, artigianato e così via; ma quando un organizzatore vorrà fare qualcosa di pratico, bisognerà sempre che dimentichi le discussioni teoriche, metta da parte le decisioni dei congressi, e “si arrangi” da sé, provando, sbagliando e riprovando.

La ragione per cui questi lavori speciali, tanto necessari, si fanno aspettare, è che sono estremamente difficili. […] tutto sta ad aver coraggio e a cominciare. Ed io comincio.

 

1. Sguardo generale. La gente di mare

 

I paesi dell’Italia meridionale si possono dividere in due grandi classi: paesi di grande e paesi di piccola proprietà. I primi occupano l’interno della penisola e sono a coltura estensiva e dànno i deputati agrari, la banda vile e abbietta dei deputati eternamente ministeriali. I secondi si trovano lungo la costa e fasciano quasi la penisola di una cintura larga in media una ventina di chilometri, spesso interrotta dalla grande proprietà; sono a coltura intensiva e dànno deputati di tutti i partiti; se deputati meridionali d’opposizione vi sono, e specie d’opposizione radicale, vengono da questi paesi.

Fra i paesi di piccola proprietà tengono certamente il primo posto quelli della costa pugliese da Barletta in giù. A distanza quasi eguale da Barletta e da Bari si trova Molfetta.

La popolazione è di 37.000 abitanti e può dividersi all’ingrosso in tre categorie: marinai, cittadini e contadini. Su 10.000 maschi superiori ai quindici anni, circa 3000 son marinai; 4000 cittadini; 3000 contadini. Elettori iscritti 2522.

Dei marinai è inutile occuparsi: il partito socialista non li conquisterà mai. Vivono per tre quarti dell’anno sull’acqua, hanno un dialetto loro speciale, i loro conti li fanno sempre in monete borboniche, non vivono nel mondo. […] pochi giorni dopo il matrimonio, se ne va con la paranza al “viaggio”. E il viaggio vuol dire andarsene per sei e più mesi a pescare nel golfo di Gaeta, a Corfù, nell’Egeo, fino al Mar Nero.

Con questa gente non c’è da fare e non ci sarà mai da fare completamente nulla. […] Del resto non stanno male, economicamente parlando. La completa libertà di pesca in un mare ricchissimo come l’Adriatico, i captali limitati necessari a metter su una parenza, […]

 

 

2. Quelli che vivono dei campi

 

Veniamo ai contadini.

Contadini per modo di dire, perché nessuno di essi abita in campagna, ma tutti passano la notte e i giorni festivi in città. È questo un fatto della massima importanza, che distingue nettamente la condizione dei contadini nostri dai contadini del resto d’Italia, e che, come vedremo, può fornire al nostro partito mezzi di agitazione altrove impossibili. […] Tutta la popolazione dei contadini va dunque divisa in quattro categorie: braccianti, massai, proprietari, fittavoli.  […]

 

6. La “curée” dei professionisti. Fisiologia dei partiti

Quando nel 1860 fu fatta la cosidetta Italia una, e furono concesse le stesse libertà e le stesse istituzioni alla Lombardia e alla Sicilia, sulla costa pugliese grandi proprietari agrari o industriali non c’erano. I lavoratori erano ignorantissimi e incapaci di qualsiasi azione politica. Non c’era che la borghesia professionista laica, che potesse occupare il Comune e creare il deputato. […] Dal 1860 in poi, però, i professionisti crescevano sempre […] Siccome la professione libera non era rimunerativa abbastanza, cercavano un posto stipendiato dal Comune: cercavano di essere medici condotti, avvocati del dazio, ingegneri municipali, maestri nelle scuole comunali, scrivani, ecc. Ma questi posti erano tutti occupati da quelli che li avevano presi nel 1860. […] I sinistri vinsero naturalmente dopo il 1876. Andati al Comune, cambiarono più impiegati che poterono, e mangiarono più che poterono. […] Frattanto il sorgere delle industrie faceva venir su la classe operaia, avida di entrare nel campo politico. Professionisti disoccupati e operai si unirono insieme e costituirono il partito radicale. La crisi dell’84 […] nel 1891 caddero i sinistri e vinsero i radicali.

Grandi speranze, gran gioia fra gli operai. Quanti operai entrarono nel Consiglio comunale? Nessuno. Furono tutti professionisti, capimastri, appaltatori, commercianti tronfi, ambiziosi e ignoranti. Naturalmente, primo atto fu il cambiamento di molti impiegati, che del resto se lo meritavano per le porcherie commesse sotto i sinistri. Secondo atto la conquista della Congregazione di carità. Terzo atto, l’alleanza del Municipio radicale col Seminario vescovile, che dà in mano al Municipio le nomine dei professori, i quali appoggiano nei loro benefattori. E siccome i professori sono quasi tutti preti, così questi preti e i loro parenti appoggiano il Municipio radicale. […]

Gli operai stomacati dei radicali, sospettosi dei monarchici, sono incerti e cominciano a sfiduciarsi della politica. […]

 

7. Suggerimenti pratici

A questo studio pratico pongo fine con un’osservazione pratica. […] Io credo che l’andata dei deputati in questi paesi produca più male che bene. Molti dei nostri compagni confondono l’agitazione con la propaganda. Le masse pugliesi non hanno bisogno di essere agitate dai discorsi dei deputati.

 

Da Critica sociale, 1 e 16 marzo, 1 prile 1897, firmato Un Travet, riprodotto in Opere di Gaetano Salvemini, IV Il Mezzogiorno e la democrazia italiana, Vol. II, Feltrinelli, Milano, 1963, pp. 9-26

Il partito socialista di Imola (1897)

Nelle elezioni generali del marzo passato noi riportiamo molte vittorie, ma anche tre sconfitte: perdemmo le posizioni di Palermo, di Napoli, di Imola. […]

Pochi, però, si sarebbero aspettata la caduta di Andrea Costa ad Imola; […] Quali sono le cause di quella sconfitta? […] Come si spiega quest’assurdo di un’amministrazione socialista, che aumenta il dazio di consumo e l’imposta sul bestiame?

I socialisti imolesi si giustificano osservando che, mentre le spese municipali crescevano e per il determinarsi di nuovi bisogni derivanti dallo sviluppo della civiltà e per la politica del Governo che, specie negli ultimi anni, non ha fatto se non scaricare molti servizi pubblici sulle spalle dei Comuni senza fornirli delle rendite necessarie, l’amministrazione comunale, invece, si vedeva chiusa la via all’aumento della tassa di famiglia e della sovrimposta di terreni e fabbricati dalla ostilità continua della Giunta provinciale amministrativa, costituita, come tutti sanno, di elementi reazionari nominati e pagati dal Governo. Stretta, quindi, dalle difficoltà finanziare, combattuta dall’autorità tutoria, l’amministrazione ha dovuto appigliarsi al solo partito che restava ed ha inasprito le imposte che cadono sui lavoratori.

A proposito, poi, dell’aumento del dazio consumo., che è certo lo scandalo maggiore, va notato che esso per quindici mila lire è fenomeno automatico derivante dall’aumento della popolazione cittadina; l’inasprimento poi, di 20.000 lire introdotto nel bilancio del 1895 fu causato dalla legge Sonnino del 22 luglio 1894; […] perché il Governo, quando trattò di fissare la quota governativa, la ridusse al minimo possibile e gettò tutto il resto sulle spalle dei Comuni. Imola da questa operazione perdé L. 9741 sul dazio consumo e L. 4500 sulla tassa di ricchezza mobile. […]

Questo ragionamento non regge a una critica seria. […] è vero […] le amministrazioni eterodosse, debbono lottare non solo con le disastrose condizioni dei bilanci comunali, ma anche colla partigianeria e colla malafede, spesso sfacciata e ributtante, dei prefetti e delle Giunte provinciali. Questo lo sappiamo tutti e c’insegna che noialtri socialisti dobbiamo essere molto cauti nelle nostre promesse amministrative; nella nostra propaganda, anzi, dobbiamo insistere continuamente sull’idea, che, finché non avremo distrutto… legalmente lo Stato accentrato com’è oggi e non avremo ottenuto la completa autonomia comunale, noi potremo far pochissimo a favore dei lavoratori, se avremo nelle nostre mani il Municipio.

Ma la mancanza di autonomia, se ci spiega perché il nostro partito in Imola non abbia potuto far del bene, non ci spiega perché abbia dovuto fare il male. Ad assestare il bilancio sconquassato non c’era altra via che aumentare il dazio consumo! E sia; ma quando un’amministrazione socialista è arrivata a questo punto, il suo posto non è più nel palazzo municipale. Quando […] abbiam visto che è impossibile farlo senza abbandonare il nostro programma e senza peggiorare le condizioni dei lavoratori, che pretendiamo di rappresentare, allora non ci resta che abbandonare il posto ai conservatori e magari metterci sul terreno francamente rivoluzionario; si entra in lotta col prefetto, ci si dimette, ci si fa sciogliere; e allora vengano pure i beniamini del signor prefetto ad aumentare il dazio consumo; ma non noi! La nostra abilità, e in genere di tutti i partiti che non sieno composti di idioti, deve consistere non solo nel saper salire al potere, ma anche nel saperne scendere a tempo opportuno con la fronte alta e con la bandiera nostra spiegata al vento.  

Questo i socialisti di Imola non l’han capito: essi non han capito che i Municipi per noi debbono essere trincee di combattimenti fierissimi e persistenti e non sedie imbottite su cui appoggiare senza spasimi le nostre emorroidi. Essi han cercato sempre, per quanto era in loro, di evitare ogni lotta coll’illustrissimo signor prefetto, per farsi perdonare il peccato di esser socialisti. E così han finito a poco a poco col perdere ogni coscienza dei loro doveri più elementari, col dimenticare completamente che, operando male, essi compromettevano non solo se stessi, ma anche tutto il nostro partito: e sono arrivati a compiere degli atti che fanno addirittura stupire per la loro incredibile incoscienza.

Di tali atti avremo purtroppo a citarne più d’uno in questo disgraziato lavoro; per ora ne riporterò uno solo; che dà la misura di tutti. In quest’inverno passato il nostro partito si è fatto iniziatore di un’agitazione per la refezione scolastica. Anche i socialisti d’Imola ci han pensato, e la amministrazione comunale ha creduto che fosse venuto finalmente il tempo di ricordarsi un po’ del programma minimo; ed ha stanziato pel bilancio del ’98 duemila lire annue per la refezione. Lasciamo andare la burletta di stanziare 2000 lire per almeno 500 alunni: date le tristi condizioni del bilancio, lo stanziamento prendiamolo come una semplice affermazione di principi e contentiamoci. Ma qui sta il bello. Il prefetto si oppone alla nuova spesa, appunto perché essa afferma un principio, che a lui non garba. L’amministrazione, di fronte alla ripulsa del prefetto, invece di insistere sulla deliberazione e magari raddoppiare per protesta le 2 mila lire – quale migliore occasione per farsi sciogliere? – si fa piccina piccina, entra in trattative col prefetto, e finalmente i contendenti si accordano a far restare le duemila lire in bilancio, ma non come spesa fatta direttamente dal Comune, bensì come sussidio a quel comitato cittadino, che si formerà allo scopo di dar la colazione agli alunni poveri. È il concetto borghese della beneficienza, che col beneplacito dei socialisti caccia di nido il concetto socialista della refezione municipale. […]

Difetto di vera coscienza socialista […] malattia che travaglia il nostro partito in ottanta su cento dei paesi d’Italia. […]

Invece di fare della propaganda concreta, dimostrando ai suoi uditori gl’interessi che dividono gli operai dai padroni, il propagandista, non avendo intorno a sé né operai né esempi di lotte, scivola facilmente nelle disquisizioni generali, che non concludono niente: parla dell’Africa, del concentramento della ricchezza, del parassitismo, dei cavalieri dell’Annunziata, dell’evoluzione – questa non manca mai, - pizzica delicatamente il chitarrino del sentimento, si fa applaudire; e quando s’è sgolato per un’ora, ha fatto un mondo di male. Nella sua cicalata il socialismo è diventato la cosa più bella e più semplice di questo mondo; il socialismo è come il paradiso di Napoleone III, dove ci s’arriva da tutte le religioni; tutti possono essere socialisti, ricchi e poveri, studenti e operai, professionisti e impiegati; basta aver buon cuore, credere nell’evoluzione, essere molto intelligenti, desiderare la rigenerazione di tutto l’universo abitato e disabitato, sentirsi pronti a soffrire per l’Idea.

E tutti diventano socialisti. Accanto a buonissimi elementi, che son naturalmente socialisti: garzoni di bottega, artigiani, proletari, braccianti, entrano nel partito il figlio scapestrato, che ha il babbo troppo severo, lo studente bocciato, l’avvocatino che ha lo scilinguagnolo sciolto, il professore che aspetta il posto governativo, il fallito perseguitato dai creditori – i falliti oramai in Italia sono una vera e propria classe sociale – lo spostato licenziato o non licenziato da uno dei tanti nostri istituti secondari. È gente pronta a fare una dimostrazione e ad andare in carcere; e in periodo elettorale lavorano per delle nottate intere a copiar circolari, a far indirizzi, ad attaccare manifesti per le strade; e, in un momento rivoluzionario, più d’uno sarebbe capace di morire eroicamente, difendendo una bandiera rossa. E, salvo rare eccezioni, che ci son date specialmente dagli avvocati, essi, finché non abbiano trovato da cambiar opinione e da star meglio, sono socialisti sinceri, profondamente sinceri; perché la loro lotta di classe la combattono anch’essi, povera gente, contro il padre tirchio, contro i debitori inesorabili; il loro solo errore è di credere che la lotta di classe, in cui si trovano impigliati essi, sia la stessa lotta di classe che nel resto del mondo gli operai organizzati combattono contro i capitalisti.

Quando l’oste vuol fare lo stufatino di lepre e non ha lepre, ci mette il gatto; così noi, volendo fare a tutti i costi lo stufatino socialista, in mancanza della lepre proletaria che non c’è o ci sfugge, abbiam cucinato del gatto borghese; piccolo, magro, se si vuole, ma borghese. È una parte della borghesia che s’incarica di combattere contro la borghesia per conto del proletariato.

Si formano così delle organizzazioni socialiste, nelle quali la spina dorsale operaia o manca o è oppressa dalla ciccia piccolo borghese. Sono circoli numerosissimi! Trecento, quattrocento, cinquecento soci, e a ogni adunanza se ne ammettono nel Circolo dei nuovi, senza discussione, su proposta di due compagni. Tutti questi circoli, poi, riuniti insieme, danno i 25 mila socialisti organizzati, che figureranno, e faran venire la tremarella ai conservatori, nei nostri congressi. Di tanti soci, appena una quindicina pagano regolarmente le loro quote; i più non sanno nemmeno di essere iscritti nel Circolo; alle adunanze prendon parte, sì e no, una trentina di habitués. Domando la parola per fatto personale! Protesto vivamente contro l’affermazione del compagno x, perché è contraria alla evoluzione! Ritiri la parola offensiva! È inutile occuparsi di questo, perché la piccola proprietà è destinata a scomparire! L’adunanza di stasera non è valida per mancanza di numero legale! Oh, per dio, ma parlerai sempre tu, stasera? – Di discussioni pratiche non se ne fanno mai; si formano facilmente delle piccole cricche, le quali si combattono alla sordina tra di loro; a poco a poco alcuni, più energici o più stupidi fra tutti, prendono il sopravvento nelle adunanze, e finiscono col far la pioggia e il sereno; gli operai autentici si stancano di quelle adunanze, dove si dura a discutere fino alle due dopo mezzanotte sulla punizione da infliggere a un compagno che, nel cantare l’inno dei lavoratori, ha fatto una stecca nei signori per cui pugnammo; il Consiglio nazionale è chiamato continuamente ad occuparsi di questioni personali e di pettegolezzi puerili e ridicoli. E questo è, in ottanta paesi su cento, il partito socialista dei lavoratori, che vuol arrivare alla proprietà collettiva per mezzo della lotta di classe. […]

Quando si tratta di questioni generali, che interessano tutta la nazione - è questo il caso delle lotte politiche - in un paese analfabeta e balordo come l’Italia, è difficile trascinare il pubblico alla lotta; […] in Italia il signor Tutti non ha nulla da fare col signor Me. Nella desolante ignoranza di tutte le classi sociali italiane, il concetto dei legami che uniscono l’individuo alle generalità non esiste; qui la lotta di classe astratta non dà noia a nessuno; bisogna far la lotta contro quella classe determinata che si trova in quel paese, anzi contro quelle certe persone che si chiamano così e così e vivono così e così. Se voi concretizzate le questioni, se le localizzate, se le personificate, quella stessa gente che prima sarebbe restata indifferente davanti a un terremoto universale, si appassionerà ora per una questione di un soldo. […] Bisogna, dove è possibile, dedicare tutta la propria attività a fomentare le lotte economiche, che riguardano interessi chiari e immediati; […] Dove la lotta economica non è possibile, ivi bisogna trovarle un surrogato, il quale non sarà mai la lotta politica. Qui è necessario dedicarsi con tutta l’anima alle lotte amministrative e considerare le lotte politiche come un corollario di quelle. […]

Il nostro attuale programma minimo amministrativo è assurdo, perché suppone un municipio astratto, nel quale si deve introdurre una serie di riforme astratte. […]

Un programma minimo amministrativo fissato dal congresso e generale per tutta Italia è un assurdo: i programmi amministrativi debbono cambiare da paese a paese: lì si tratterà di abolire una banda musicale, altrove di sopprimere il sussidio alla festa annuale del santo patrono, altrove di fare un lavatoio pubblico, e così di seguito. È necessario che ognuno faccia da sé, adattandosi alle condizioni locali, senza aspettare i lumi del congresso, che non può darli.

Tutto questo richiede uno studio minimo, lungo, paziente, che pochi si sentono voglia di fare. A che perdere una settimana di tempo a studiare un contratto d’appalto, quando in dieci minuti su un opuscolo di un soldo ci si mette in grado di fare una bella conferenza sulla socializzazione delle miniere? È vero che nell’uditorio non ci sono né padroni né operai minatori, ma appunto per questo tutti si troveran d’accordo e applaudiranno e diventeranno socialisti; […] invece a parlar di tariffe daziarie, dopo una settimana di studio, c’è da veder dividersi l’uditorio in due parti e volar le panche per aria; che gusto ci può essere a farsi scavezzare il collo, mentre è tanto più facile farsi applaudire? […]

Conquiste ne faremo poche, ma saranno buone e sicure; […] ma avremo dei piccoli nuclei socialisti, omogenei, compatti, coscienti, i quali, come le vergini della parabola, sapranno aspettare lo sposo, e in un momento rivoluzionario - per carità, non parliamo di questo! I socialisti elettorali conquisteranno tutto legalmente – e in un momento rivoluzionario sapranno imporsi colla forza morale e trascinarsi dietro le masse. Seguendo una via diversa avremo certamente circoli apparentemente popolati e moltissimi voti nelle elezioni; ma quando lo sposo verrà, quella gente si farà trovare colle lampade spente e, o scapperà a nascondersi nelle cantine, o, se qualcosa farà, lo farà a vanvera e manderà tutto in rovina.

In molti paesi d’Italia, […] dobbiamo avere il coraggio di adattarci a restare minoranza fino a tempi migliori. Questi tempi migliori verranno o quando le condizioni economiche locali sieno mutate; oppure quando il partito, diventato maggioranza vittoriosa nei luoghi più fortunati, dia mano forte alle minoranze sorelle degli altri luoghi, perché possano prevalere  sui partiti avversi […] Ma perché in tempo opportuno il partito possa fare il suo dovere, bisogna che si conservi puro e cosciente; e io son convinto che, specie nell’Italia centrale, ogni eccessivo aumento del numero dei socialisti sia un fenomeno tutt’altro che consolante; bisogna prendere tutte le precauzioni perché non avvenga e, dove è avvenuto, bisogna combatterlo.

Tutta questa riforma nella composizione del partito, nei sistemi di propaganda, nelle maniere di lotta, come abbiam detto, non può essere opera di un momento né può esser data da un voto di congresso; ma il congresso qualcosa può fare per preparare e facilitare la riforma. […] bisogna che il congresso affermi che dovere dei socialisti è occuparsi della lotta economica con maggiore alacrità […] fissi i criteri generali da seguire nelle lotte amministrative […] faccia un obbligo per la stampa regionale di occuparsi molto più delle questioni locali concrete […] deliberi che le statistiche dei socialisti organizzati ci dieno non solo i numeri secchi, ma anche le condizioni sociali a cui ciascun socialista appartiene; fissi che nelle lotte amministrative le liste nostre debbano esser formate almeno per tre quarti di operai autentici e al più per un quarto di borghesi; e dove ciò non sia possibile, consigli l’astensione dalla lotta, perché vuol dire che in quel luogo non c’è ancora una vera coscienza socialista; […] dia incarico al Comitato esecutivo di organizzare delle cattedre ambulanti di diritto amministrativo e di scienza finanziaria ad uso esclusivo degli operai, perché questi possano farsi una solida coltura giuridica ed economica, che li guidi nelle lotte locali.

Se il congresso farà tutto questo, un gran passo sarà senza dubbio dato sulla via della riforma e della riorganizzazione del partito. Il tempo e l’ingresso nel partito di un numero sempre maggiore di operai e di contadini faranno il resto.

Venendo ora a Imola, per le elezioni amministrative del maggio venturo par necessario che quanti dei socialisti imolesi sono convinti degli errori passati, e vogliono evitare errori futuri, si mettano fin da ora a lavorare per spingere il partito sulla nuova via.

Bisogna anzitutto affermarsi su un programma, nel quale la lotta di classe non sia fatta solo a parole: sopprimere le 5.000 lire di sussidi agli studenti secondari e universitari, le cui condizioni sono certo degne di commiserazione, ma non quanto quelle dei disgraziati dalle cui tasche le 5000 lire debbono uscire; iniziare trattative col Governo per sopprimere il ginnasio locale, al cui mantenimento il Comune concorre per più di 16.000 lire l’anno; i figli della povera gente non vanno a studiare latino, e i figli di quegli altri, se vogliono addottorarsi, la dottrina vadano ad acquistarsela nei paesi vicini e se la paghino; dedicare le precedenti 5000 lire e quest’altra possibile economia di 16.000 lire e le 2000 lire già stanziate, a organizzare la refezione gratuita; proporre 20.000 lire di aumento nella sovrimposta sui terreni e fabbricati e nella tassa di famiglia e 20.000 lire di diminuzione nel dazio consumo sui generi di prima necessità; sopprimere tutte le opere pubbliche non strettamente necessarie, in modo da evitare qualunque nuovo debito. Non basta però il programma, bisogna trovare gli uomini. Per questo è necessario affermarsi su una lista esclusivamente socialista, distinta da tutti gli altri partiti, nella quale non dev’esser contenuto nessuno di quelli che han seduto per l’addietro in Consiglio, perché tutti senza distinzione si son mostrati assolutamente incapaci all’ufficio; nella nuova lista comprendere possibilmente tutti operai; […] organizzare al più presto possibile un corso di lezioni e di discussioni, in cui qualche persona competente, […] spieghi agli operai tutti gli errori passati, studii con loro il bilancio del Comune, ne discuta minutamente le cifre, dia delle nozioni di diritto amministrativo, cerchi per quanto è possibile di metter gli operai in grado di pensare da sé; […]

Non so se il partito socialista imolese avrà il coraggio di mettersi per questa via; se l’avrà, le prossime elezioni amministrative saranno per esso la prova del fuoco; prova, dalla quale uscirà molto probabilmente sconfitto, perché tutti gli elementi infidi gli si rivolteranno contro; ma la sconfitta sarà onorata e vantaggiosa e noi ne usciremo purificati e capaci di riprendere con sicurezza di vittoria il nostro cammino verso l’avvenire.

 

Da Critica Sociale, 16 agosto, 1 e 16 settembre 1897, firmato Un Travet, riprodotto in Opere di Gaetano Salvemini, IV Il Mezzogiorno e la democrazia italiana, Vol. II, Feltrinelli, Milano, 1963, pp. 26-43

 

La questione amministrativa a Torino e altrove  (1898)

La lotta contro le autorità tutorie, poi, è un dovere specialmente per i Consigli socialisti dei comuni come Milano e Torino, perché essi soli hanno la forza per obbligare il Governo a capitolare. Che effetto volete che faccia sul Governo la ribellione di Imola o di Colle Val d’Elsa? […] I comuni minori debbono per la loro debolezza stare sulla difensiva; in un caso solo essi potranno utilmente muovere all’offensiva; in un caso solo essi potranno utilmente muovere all’offesa: quando sieno stati preceduti dai comuni maggiori.

Milano e Torino hanno il dovere di mettersi d’accordo e di muoversi primi; i comuni minori hanno il dovere di seguirli. Chi sa se la nostra agitazione non si trascinerebbe dietro anche parecchi dei comuni repubblicani e democratici e quei comuni borghesi, che si trovano per ragioni particolari in lotta con i prefetti. Quale opera più bella, più feconda, più rivoluzionaria di questa potrebbe desiderare il nostro partito?

 

 Da Critica Sociale, 16 febbraio 1898, firmato Un Travet, riprodotto in Opere di Gaetano Salvemini, IV Il Mezzogiorno e la democrazia italiana, Vol. II, Feltrinelli, Milano, 1963, pp. 45-52

 



Contributo alla riforma del programma minimo (1898)

Caratteri generali del programma

La dichiarazione proposta da Turati al Congresso di Bologna e votata alla quasi unanimità a proposito del programma minimo è stata un gran passo verso la riforma del programma stesso. Il programma minimo noi l’avevamo compilato a caso, senza alcun concetto direttivo mettendo una riforma dopo l’altra, secondo ci venivano in mente; alla lista primitiva erano stati poi di tanto in tanto aggiunti alcuni articoli nuovi; […]

Il primo paragrafo della dichiarazione di Bologna mi sembra che contenga un’idea che va rifiutata o almeno profondamente rettificata.

 

Il programma minimo dei socialisti non è il loro programma di governo. Il socialismo non potrà cominciare ad essere attuato se non dopo la conquista dei pubblici poteri: nel che è da intendere, non già la conquista di qualche seggio o di qualche minore corpo deliberante, ma la presa di possesso, da parte del proletariato socialista, dei congegni fondamentali del potere politico…

 

Queste parole fanno credere che il partito socialista, oltre il programma minimo, abbia un programma di governo, un programma massimo. Ora a me sembra che noi non abbiamo due programmi, uno minimo e uno massimo, uno di opposizione e uno di governo. Noi siamo convinti che la società capitalistica si trasforma e che resultato ultimo di questa trasformazione sarà la proprietà collettiva degli strumenti di produzione e di scambio e la sovranità economica e politica del proletariato. Questa concezione della evoluzione sociale ci suggerisce il metodo, che dobbiamo tenere nell’organizzare il proletariato in partito di classe, nel sollecitare e dirigere la trasformazione sociale, nel propugnare delle riforme immediate. Ora, il metodo, che ci guida nella escogitazione delle riforme immediate, non è diverso oggi da quello che sarà il giorno in cui noi, invece di essere all’opposizione, saremo al governo. E oggi e fra cento anni il metodo pratico del nostro partito sarà sempre lo stesso: partire dalle condizioni attuali della società in un dato momento, ed avendo sempre di mira il punto verso cui, secondo noi, la società cammina, proporre le riforme, che in quel momento possono essere ottenute per mezzo dell’opera diretta o indiretta del proletariato.

La differenza fra oggi e il tempo, in cui il proletariato sarà padrone dei poteri pubblici, consiste in questo: che oggi è la borghesia quella che, obbligata da noi, fa le riforme; in avvenire saremo noi; oggi siamo obbligati alla virtù della temperanza; ma, come si vede, questa è differenza di grado e non di sostanza. […]

Per tal modo non sarà impossibile, anche sotto il Governo socialista, che nei primi tempi, e magari per molti e molti anni, alcune forme di produzione e di scambio si sottraggano alla socializzazione, mentre altre sieno perfettamente socializzate. Così sarà possibilissimo che, almeno per i primi tempi, accanto all’antico latifondo espropriato e sottomesso al lavoro sociale, si conservino le piccole proprietà destinate ad essere a poco a poco assorbite pacificamente e dolcemente dalla proprietà collettiva, ma lasciate libere dal Governo socialista e non sottomesse alla espropriazione forzata, per le enormi difficoltà che la espropriazione simultanea di tanti proprietari dovrebbe superare. […]

Col cambiare di luogo e di tempo le riforme da una classe possono passare in un’altra; […] In Inghilterra, dati i costumi del paese, la socializzazione della terra potrebbe essere per ora una riforma giuridica; in Sicilia è altamente rivoluzionaria. La classificazione delle riforme non ha quindi nulla di assoluto, ma varia col variar degli ambienti sociali, nei quali noi portiamo il nostro lavoro di critica e di ricostruzione. […]

 

III

[…] “Son riforme socialiste tutte quelle che direttamente o indirettamente aumentano la potenza del proletariato e sollecitano la trasformazione del mondo capitalistico nel senso della socializzazione della proprietà privata” […]

Prendendo, per esempio, alcune di quelle riforme, che vanno sotto il nome di umanitarie, è evidente che il partito, some partito, non deve occuparsi né di reprimere l’accattonaggio, fondando associazioni che dieno lavoro agli accattoni onesti, […] altre riforme, come la ricerca della paternità, la riforma dei brefotrofi (1), la istituzione di cooperative, il partito deve considerarle come riforme socialiste; perché la seduzione seguita da abbandono avviene quasi sempre per parte degli uomini borghesi contro le donne proletarie, e la legge per la ricerca della paternità sarebbe un mezzo per obbligare la borghesia a subire la responsabilità delle sue azioni; perché i bambini, che vanno ad essere ammassati nei brefotrofi, son tutti proletari; perché il movimento cooperativo in alcuni ambienti è l’unico mezzo per educare il proletariato ai primi principii della solidarietà; e così di seguito. […] Io non potei intervenire al Congresso di Bologna per moltissime ragioni, e fra le altre, perché non avevo i quattrini per pagarmi il viaggio; per questo e perché non è stato ancora pubblicato il resoconto del Congresso, e perché il bollettino giornaliero dell’Avanti! fu fatto molto male, non son riuscito a farmi un’idea chiara delle opinioni sostenute nel Congresso a proposito dei caratteri generali delle nostre riforme. La sola cosa che mi pare di aver capito è che il Congresso ritenne, seguendo la teoria di Turati, che le nostre riforme immediate (programma minimo) non sono socialiste. Queste parole han bisogno di essere spiegate.

Se con esse si vuol dire che le riforme immediate non sono il socialismo, siam d’accordo; anzi si deve dire che nessuna riforma socialista, immediata o lontana, legale o rivoluzionaria, è il socialismo. Il socialismo traspare in tutte ma non si ferma in nessuna; esso non è un insieme di riforme determinate, ma, come innanzi abbiam detto, è un metodo informatore.

Se con le parole in questione si vuol dire che le riforme immediate […] possono essere, per fini diversi dai nostri, sostenute anche da partiti diversi dal nostro, anche su questo siamo d’accordo. […] in parecchi Comuni la borghesia è arrivata per conto suo a riforme, che nel resto del mondo sono e saranno ancora per chi sa quanto tempo domandate dai socialisti. In Italia poi in questi giorni assistiamo allo spettacolo comico – nel paese di Pulcinella il comico non manca mai – dello Stato che per mezzo del ministro della Guerra compra e vende il grano a prezzo di costo, mentre i socialisti che vogliono su per giù la stessa cosa sono messi in galera. Per questo io non riesco a capire quelli che vogliono un programma pratico essenzialmente socialista. Questo è assolutamente impossibile; […]

  

Nella questione militare non è necessario domandare la pace universale e l’abolizione degli eserciti per distinguerci dagli altri partiti e dimostrarci socialisti. Questo si può fare domandando molto, ma molto meno. Per esempio, dal momento che un esercito c’è, noi socialisti, pur aspirando ad abolirlo, e pur non rinunziando ad abolirlo a tempo opportuno – su questo bisogna insister sempre – noi vogliamo che, di fronte alla coscrizione militare, tutti sieno uguali, borghesi e proletari, ricchi e poveri; vogliamo che gli studenti universitari, i figli della borghesia non restino esenti dal servizio militare durante il periodo di studi, perché, se dalla coscrizione è danneggiato lo studente, è danneggiato anche l’operaio, e non è giusto pensar solo a far i comodi del primo e non anche quelli del secondo. […]  Quando la borghesia comincerà a sentire anch’essa, come il proletariato, il peso del servizio militare, quando dovrà sacrificare anch’essa i suoi interessi, i suoi affetti, le sue occupazioni al mostro del militarismo, allora diventerà un po’ antimilitarista anch’essa, e non applaudirà più con tanto entusiasmo al richiamo delle classi incaricate di fucilare i contadini siciliani. […] Un radicale più o meno legalitario domanderebbe che gli ufficiali non potessero andare armati fuori servizio, per evitare alterchi fra cittadini e soldati e malumori fra la nazione e l’esercito nazionale… non regio*.

 

* Come diavolo mai l’anno scorso venne in mente al [socialista Andrea] Costa di appoggiare la proposta di Imbriani per chiamare l’esercito non regio ma nazionale? Ma l’esercito è bene che si chiami regio, come il lotto, come gl’impiegati, come la questura, come tutto ciò che di sudicio c’è in Italia. Il Costa doveva invece proporre che fosse intitolato regio anche il debito pubblico.

 

Note

(1) Istituto (diverso dall’orfanotrofio) che accoglie e alleva i neonati illegittimi, abbandonati o in pericolo di abbandono.

 

Da Critica Sociale, 16 aprile e 1 maggio 1898, firmato Un Travet,

riprodotto in Opere di Gaetano Salvemini, IV Il Mezzogiorno e la democrazia italiana, Vol. II, Feltrinelli, Milano, 1963, pp. 52-64


Gerolamo Savonarola (1452-98)

Trattato di Frate Ieronimo da Ferrara dell'Ordine de' Predicatori Circa el reggimento e governo della città di Firenze composto ad instanzia delli eccelsi Signori al tempo di Giuliano Salviati Gonfaloniere di Iustizia (1494)

Per una buona introduzione al testo, nato come sviluppo delle prediche d'Avvento del 1494 su Aggeo, vedasi: http://www.sifp.it/pdf/SAVONAROLA-sifp.pdf 
Trattato di Frate Ieronimo da Ferrara dell'Ordine de' Predicatori Circa el reggimento e governo della città di Firenze composto ad instanzia delli eccelsi Signori al tempo di Giuliano Salviati Gonfaloniere di Iustizia

Proemio
Avendo scritto copiosamente, e con grande sapienzia, molti eccellenti uomini d'ingegno e di dottrina prestantissimi, del governo delle città e delli regni, magnifici ed eccelsi Signori, parmi cosa superflua componere altri libri di simile materia, non essendo questo altro che multiplicare li libri, senza utilità. Ma perché le Signorie Vostre mi richiedono, non che io scriva del governo de' regni e città in generali, ma che particularmente tratti del nuovo governo della città di Firenze, quanto spetta al grado mio, lasciando ogni allegazione e superfluità di parole e con piú brevità che sia possibile, non posso onestamente denegare tal cosa, essendo convenientissima al Stato vostro, e utile a tutto el popolo, e necessaria al presente allo officio mio.
Perché, avendo io predicato molti anni per voluntà di Dio in questa vostra città, e sempre prosequitate quattro materie: cioè, sforzatomi con ogni mio ingegno di provare la fede essere vera; e di dimostrare la simplicità della vita cristiana essere somma sapienzia; e denunziare le cose future, delle quali alcune sono venute e le altre di corto hanno a venire; e, ultimo, di questo nuovo governo della vostra città: e avendo già posto in scritto le tre prime, delle quali però non abbiamo ancora pubblicato il terzo libro, intitulato Della verità profetica, resta che noi scriviamo ancora della quarta materia, acciò che tutto el mundo veda che noi predichiamo scienzia sana e concorde alla ragione naturale e alla dottrina della Chiesa.
E avvenga che mia intenzione fusse e sia di scrivere di questa materia in lingua latina, come sono ancora stati composti da noi li primi tre libri, e dichiarare come e quanto e quando si aspetta a uno religioso a trattare e impacciarsi delli Stati seculari; nientedimeno, chiedendomi le Signorie Vostre che io scriva volgare e brevissimamente per piú commune utilità, essendo pochi quelli che intendono il latino a comparazione delli uomini litterati, non mi rincrescerà prima espedire questo trattatello; e dipoi, quando poterò essere piú libero dalle occupazioni presenti, metteremo mano al latino con quella grazia che ci concederà lo onnipotente Dio.
Prima, adunque, brevemente tratteremo dello ottimo governo della città di Firenze: secondo, del pessimo. Perché, avvenga che prima bisogni escludere el male, e dipoi edificare el bene, nientedimeno, perché el male è privazione del bene, non si poteria intendere il male se prima non si intendessi el bene. E però è necessario, secondo l'ordine della dottrina, trattare prima del governo ottimo, che del pessimo. Terzio, noi dechiareremo qual sia il fundamento da tòrre via el governo pessimo, e da fundare e fare perfetto e conservare el presente buon governo, acciò che diventi ottimo, in essa città di Firenze.


Trattato primo
Che è necessario il governo nelle cose umane; e quale sia bono, e quale sia cattivo governo.

Capitolo primo
L'onnipotente Dio, el quale regge tutto l'universo, in due modi infunde la virtú del suo governo nelle creature. Però che nelle creature, che non hanno intelletto e libero arbitrio, infunde certe virtú e perfezioni, per le quali sono inclinate naturalmente ad andare per li debiti mezzi al proprio fine, senza difetto, se già non sono impedite da qualche cosa contraria: il che accade rare volte. Onde tale creature non governano sé medesime, ma sono governate e menate alli fini proprii da Dio e dalla natura data da lui. Ma le creature, che hanno el dono dello intelletto, come è l'uomo, sono da lui per tale modo governate, che ancora vuole che si governino sé medesime: perché dà a loro el lume dello intelletto, per lo quale possino cognoscere quello che li è utile e quello che li è inutile, e la facultà del libero arbitrio da potere eleggere liberamente quello che a loro piace. Ma perché el lume dello intelletto è molto debile, massime nella puerizia, non può perfettamente uno uomo reggere sé medesimo senza adiutorio dell'altro uomo, essendo massime quasi ogni uomo particulare insufficiente per sé medesimo, non potendo provedere solo a tutti li suoi bisogni cosí corporali come spirituali. Onde noi vediamo che la natura ha provisto a tutti li animali di quello che hanno bisogno per la vita loro, cioè, di cibo, di veste e d'arme da difendersi: e ancora, quando si infermano, per istinto naturale si governano e corrono all'erbe medicinali; le quali cose non sono state proviste dall'uomo; ma Dio, governatore del tutto, ha dato a lui la ragione e lo instrumento delle mani, per le quali possa per sé medesimo prepararsi le predette cose. E perché considerata la fragilità del corpo umano, sono necessarie quasi infinite cose per nutrirlo, augumentarlo e conservarlo, alla preparazione delle quali si richiedono molte arte, le quali sería impossibile o molto difficile che si potessino avere tutte insieme da un uomo solo, è stato necessario che li uomini vivino insieme, acciò che uno aiuti l'altro, dando opera alcuni a una arte e altri ad un'altra, e faccendo insieme tutto uno corpo perfetto di tutte le scienzie e arte. [...]




Luigi Sturzo

 

Luigi Sturzo, Programmi e non persone (1899)

 

È una frase che i cattolici ripetono da gran tempo, e che ci piace leggere nella circolare del prefetto Badendo, diretta agli elettori della provincia di Catania, in occasione delle prossime elezioni amministrative.

Il diritto popolare di elezione, sacro diritto di libertà, ha la sua grande ragion d’essere nel concorso disinteressato di tutti i cittadini al miglioramento della cosa pubblica. Altro scopo non ha, né può avere. IL farvi entrare, anche indirettamente, l’utile o l’interesse personale, quale esso sia, è un distruggere il fondamento del diritto, e per necessità, un invertire lo scopo del bene comune e del retto funzionamento di un ente, che risponde ai bisogni collettivi del popolo.

Non basta perciò che si presentino a candidati per rappresentare e curare questi interessi collettivi, uomini anche di specchiata onestà; ma fa d’uopo che si presentino in nome e sotto la ragione di un programma; perché i mandanti possano aver non solo la fiducia personale, bensì la fiducia che saranno con criterio certo e con norme stabilite curati gl’interessi di tutti.

E il corpo elettorale, composto di tutte le classi sociali, dal professionista al proprietario, grande e piccolo, all’operaio, all’agricoltore, misurerà il programma coi bisogni della propria classe e con le esigenze collettive; riconoscerà nei candidati la abilità e la volontà di attuare quel programma; e approvando il programma, affiderà loro il mandato.

Si dirà che tale criterio elettorale è una bella utopia, una fictio juris, creata a dimostrare la ragionevolezza del diritto di voto accordato al popolo; ma che al fatto non corrisponde.

Sia; ma la colpa non è della ragione del diritto, che si vuole convertire in una funzione; è del corpo elettorale, non educato, che baratta così nobile ufficio col vile e incosciente di appoggiare il favorito o il prepotente; è del popolo, che si dimentica la ragione del suo diritto, per asservire sé e la cosa pubblica [res publica in latino]  alle ambizioni, alle pretese, agl’interessi personali; e se di questo passo in tutti i comuni d’Italia si andrà allo sfacello, la colpa è degl’italiani, che ancora bisogna fare!

[…] Però è ben chiaro che quando popolo e candidati sono mossi da un ideale da raggiungere, e sentono la potenza di questo ideale, deve di necessità scomparire tutta la fungaia elettorale e quella zavorra che porta la barca comunale a fondo. Coloro che aspirano a posti, impieghi, imprese; tutti i parassiti che vivono del partito per vivere del comune, e che fan costare caro il loro voto per puntellar le persone, non hanno più ragion d’essere; come non devono avere ragion d’essere i grossi galoppini dei partiti, i ricattatori dei voti, davanti ai quali l’amministrazione è costretta a chiudere un occhio; né avrà ragion d’essere il favoritismo nella nomina degl’impiegati, […]

Non così quando la vita elettorale di un popolo è lumeggiata da idee e da programmi; […]  

Allora l’ambizione o l’interesse personale saran vinti dalla serietà del partito, che annunzia il suo programma, lo popolarizza sulla stampa e nei comizi, e si fa giudicare senza le preoccupazioni dell’urna che potrebbe anche dare il suo responso negativo, e sbalzare dal seggio chi in fin dei conti non fa altro che rassegnare al popolo, senza rimorsi e senza recriminazioni, il nobile mandato.

Alto ideale che non si può effettuare in un giorno, né si può comprendere in tutta la sua ampiezza quando ire, interessi, ambizioni politiche inquinano l’ambiente elettorale. […]

Non inchinarsi mai alle esigenze del momento, non cedere un punto alle amicizie e agl’interessi; sentire e vivere la vita sociale del benessere comune in tutta la sua forza e la sua potenza.

Abbiamo questi uomini? – Se non li abbiamo, cerchiamo di averli.

È perciò che la Croce di Costantino si permette presentare le linee generali di un programma, che buoni amministratori dovrebbero seguire:

1. Rimandare a miglior tempo le opere pubbliche straordinarie che non siano di assoluta necessità.

2. Limitare in più stretti confini le altre spese straordinarie e le ordinarie facoltative.

3. Respingere ogni prestito nuovo che non sia devoluto ad opere rimunerative pel municipio o la cittadinanza.

4. Semplificare i rami dell’amministrazione e togliere gli uffici superflui creati per ragioni elettorali.

5. Abolire il dazio sulle farine e sulle paste.

6. Aumentare in equa misura il dazio sui generi di lusso e sui manufatti, che fanno concorrenza al lavoro cittadino.

7. Regolare la distribuzione delle tasse in modo che ne vengano sgravati i meno abbienti, e si inizi la graduale abolizione del dazio di consumo.

8. Far le nomine degl’impiegati comunali a concorso; lasciar liberi i dipendenti dal municipio nell’esercito dei diritti civili e politici; né rimuoverli dal posto o impiego per ragioni elettorali.

9. Promuovere scuole complementari e possibilmente l’arti e mestieri per i nostri operai. Agevolare la costituzione di cooperative di lavoro, di consumo e di credito.

[…]

12. Fare che nelle scuole elementari comunali venga impartito bene e da persone idonee l’insegnamento religioso.

13. Non concedere il teatro comunale per rappresentazioni immorali e irreligose.

[…]

Sono queste le linee generali che possono servire di base agli elettori per giudicare. E noi ai fatti giudicheremo.

                                                                                                              Il crociato

Da La Croce di Costantino, Caltagirone, 18 giugno 1899


Luigi Sturzo, Nord e Sud Decentramento e federalismo (1901)




 

L’affare dell’abolizione del dazio sul grano ha dato l’occasione a ripetere tutti gli argomenti, veri e falsi, per cui si riaccende così spesso il dibattito di gelosie, e di reclami a base di interessi economici, tra le diverse regioni d’Italia.

E mentre altrove una tale questione si sarebbe svolta come fatto semplicemente economico tra agricoltura ed industria, da noi si è svolta anche come fatto politico tra regione e regione. Non vorrò io negare, anzi ‘affermo, che la politica finanziaria ed amministrativa dell’Italia è stata, sin dalla formazione dell’unità di regime, senza equilibrio e senza giustizia distributiva fra le diverse regioni, tanto da determinare un vero dualismo con l’oppressione, s’intende, della parte più debole.

Quest’asserzione, luminosamente dimostrata a base di cifre, o con una statistica convincente, l’assumo come postulato, purtroppo indiscusso.

Io tendo al pratico: per questa volta il dazio sul grano è stato mantenuto, specialmente in riguardo ai nostri interessi agricoli – Ma e per l’avvenire? -  E il sistema?

[…]

È stato annunziato anche dal Sole e ripetuto dagli stessi promotori, che gli onorevoli deputati siciliani al parlamento si sono costituiti in comitato per gl’interessi della Sicilia.

Troppo tardi! Han detto alcuni; - inutilmente o con poca utilità! – han ripetuto altri.   

Io sono un po’ scettico in proposito, e credo poco all’unione all’energia ed al buon volere dei deputati siciliani. Del resto, che abbiano costituito un comitato parlamentare per gl’interessi siciliani è un bene, e che ci lavorino sul serio è sempre tanto di guadagnato.

Ma nessuno di noi si deve illudere sull’efficacia dell’opera dei deputati siciliani, anche contro il buon volere degli stessi, per la maledetta politica di corridoio, per le combinazioni di gruppetti, per le diverse tendenze dei partiti, per le esigenze del momento, cose tutte che predominano nel caos montecitoriale, e che più degli altri appassionano i nostri deputati meridionali.

E po, ammesso che i deputati siciliani otterranno dei vantaggi per la nostra isola, non potranno di certo né modificare il sistema di squilibrio finanziario che regna da quarant’anni; né avviare la politica finanziaria ad una razionale proporzionalità fra le diverse regioni; tanti interessi, vincoli di bilancio, determinazioni finanziare, diversità di combinazioni e ripercussioni economiche (per non parlare delle serissime ed insormontabili difficoltà politiche) esistono nel mare magnum governativo!

Infine, si crederà forse giusto che la Sicilia ed il meridione, danneggiati da tanti anni, rendano oggi la pariglia al nord e si procurino, per mezzo di comitati più o meno parlamentari, quegli utili, quei privilegi e quelle concessioni governative, che lederanno le altre regioni italiane?

Come non è stata politica equa la passata, non sarebbe neppure equa la futura.

Per esempio: se non era lecito che i consumatori del nord reclamassero la totale abolizione del dazio protettivo sul grano, con grave danno dell’agricoltura del sud; era forse naturale che il sud reclamasse la conservazione del dazio protettivo del grano, con danno dei consumatori del nord? – Lo stesso si dica delle industrie del nord protette a danno dei consumatori del sud.

Non si vuole l’egemonia, ora di Sparta ora di Atene, rispondono molti; solamente un’equa distribuzione di pesi e di vantaggi fra tutte le regioni: ed è giusto. Ma sinceramente, si crede forse che le diversità fra le varie regioni, di condizioni, di educazione, di tradizioni, di attività, di ricchezze, di produzione, possono, per decreto del ministro o per legge del parlamento, ridursi ad una uniformità aritmetica, che divenga la base della distribuzione rateale della finanza dello stato?

Nitti nel suo celebre libro, fra gli altri, stabilisce il confronto fra le province di Bari e di Alessandria, ambedue quasi uguali di popolazione e di superficie. Non riporto i risultati per non abusare della pazienza del lettore; del resto la statistica muta non può dare che cifre, le quali manifestano la sproporzione. Perché, a pigliar una sola cifra, per l’imposta erariale sui fabbricati, Bari nel quinquennio 1894-98 ha pagato L. 2.324.503 ed Alessandria 1.362.146, cioè Bari ha pagato circa un milione di più.

La ragione è evidente: nella provincia di bari le abitazioni sono agglomerate nelle più o meno popolose città; nella provincia di Alessandria sono disseminate nelle campagne; le seconde sfuggono all’imposta, le prime invece vengono colpite.

Si potrebbero moltiplicare gli esempi: l’unità d’imposta sui terreni, se si stabilisce in ragione dell’estensione territoriale, grava proporzionalmente di più sui latifondi meno fertili e meno coltivati del meridione, che sui terreni a cultura intensiva del settentrione; se invece si stabilisce in ragione della produttività, i settentrionali, più laboriosi, ne risentirebbero di più dei meridionali, che continuano disgraziatamente nei sistemi primitivi di agricoltura.

Un dazio protezionista può riuscire favorevole per una regione, dannoso per un’altra. Se la distribuzione dei vantaggi da parte dello stato si fa in ragione di popolazione, ci perdono le regioni meno popolose, benché più attive; se invece in ragione di territorio, ci perdono le regioni più agglomerate. […]

Tra tutte le cause della questione del nord e sud Italia, pare adunque che le principali siano l’accentramento di stato e l’uniformità tributaria e finanziaria.

Se si vuole perciò arrivare alla radice del male si deve avere il coraggio di affrontare la questione, senza le solite titubanze, e volere quel rimedio (lo chiamiamo eroico?)  che gli uomini politici liberali hanno paura di proporre, per una di quelle false concezioni che fatalmente predominano nella storia.

Il rimedio sarebbe ed è un sobrio decentramento regionale amministrativo e finanziario e una federalizzazione delle varie regioni, che lasci intatta l’unità di regime.

Non voglio essere frainteso, perché la poca saldezza di fede nei principi liberali, sui quali si è voluta poggiata l’unità della patria, è la causa di un timor panico e geloso che invade i nostri uomini, quando si parla di decentramento e di federalizzazione regionale, e che li ha costretti a sancire quell’uniformità, che dovea servire a togliere le cuciture (è parola di Crispi) delle varie regioni, e dovea dare la spinta a quell’accentramento di stato, che è la rovina delle nazioni modern

La questione nostra non è politica; è amministrativa e finanziaria. Che le regioni italiane abbiano finanza propria e propria amministrazione, secondo le diverse esigenze di ciascuna […]

L’unità di regime serve a collegare finanziariamente ed economicamente le regioni, e a dare unità legislativa, giudiziaria, coattiva e militare, e in tutto ciò che è appartenenza politica interna od esterna.

 È tempo oramai di comprendere come gli organismi inferiori dello stato – regione, provincia, comune, - non sono semplici uffici burocratici o enti delegati, ma hanno e devono avere vita propria, che corrisponda ai bisogni dell’ambiente, che sviluppi le iniziative popolari, dia impulso alla produzione e al commercio locale.

Così solo si potranno togliere le sproporzioni, ed avviare le regioni alla tutela ed al miglioramento delle proprie industrie, alla razionale ripartizione dei pesi ed alla giusta partecipazione ai vantaggi. E così solamente la questione del nord e sud piglierà la via pratica di soluzione, senza ingiustizie e senza odii e rancori.

Il giornalismo italiano dovrebbe fare sue queste tendenze, che qua e là si vanno manifestando, dando loro il coefficiente della popolarità, che è uno dei fattori di un buon successo.

Il Sole, nato per la giusta tutela degl’interessi del sud, son sicuro che desta la pubblica opinione siciliana, fa la rivendicazione delle autonomie regionali contro l’accentramento e l’uniformità dello stato.  


Il Sole del mezzogiorno, Palermo, 31 marzo – 1 aprile 1901

 

 

 

 



Silvio Trentin 
 
 
Stato - Nazione Federalismo (1940)

Da ogni parte, dunque, e alla luce dei dati meno controversi e delle ipotesi meno azzardate, delle obiezioni formidabili sembrano naturalmente proporsi all’attualità di un qualsiasi disegno di ricostituzione su basi federalistiche dell’ordinamento della vita sociale.

Eppure, al di fuori del regime del quale detto disegno tratteggia i lineamenti essenziali, non vi è possibilità di salvezza. Ogni progresso ulteriore dello stato unitario e della sua tecnica di governo, vuol dire una degradazione ed un avvilimento ulteriori della condizione umana, un nuovo anello aggiunto alla catena per cui in ogni tempo l’uomo fu reso schiavo dell’uomo, il compimento di una nuova tappa forzata verso la catastrofe di tutti i valori nei quali ancora sopravvive l’umana civiltà.

È nello stato totalitario che lo stato unitario rinviene la sua ultima e più compiuta espressione. E il tipo più perfetto del cittadino di questo è l’Italiano di Mussolini o, meglio ancora, l’uomo massa di Hitler: una povera miserabile caricatura, dunque, della specie umana, cui non soltanto fa difetto ogni parvenza di esteriore dignità, ma son persino irremissibilmente sottratti ogni secreta capacità di pensiero e gli attributi elementari dell’esistenza cosciente.

L’umanità invero che lo Stato unitario plasma quale uno strumento perfetto della sua sconfinata potenza e assieme quale una docile materia per le sue esperienze esemplari, è un’umanità alla quale, dall’esterno, la propaganda ininterrottamente appresta, bell’e confezionati, tutti gli elementi della sua essenza morale: e le ragioni di vita e le intime inclinazioni, e i criteri di giudizio e i motivi ai quali possa ricondurre ogni anche più piccolo frammento della sua attività. Ed è appunto per adempiere senza debolezza a questo suo compito privilegiato cha la Propaganda dello Stato totalitario adotta a fonte inesauribile della propria autorità, la menzogna: «solo le menzogne misurate – insegna Hitler – hanno le virtù di produrre immancabilmente il loro effetto, e menzogne cioè talmente esorbitanti che a nessuno venga in mente di sospettare che non siano che delle menzogne. Se una menzogna è molto grande si può esser sicuri che almeno una sua parte sarà creduta. La massa del popolo lascia infatti più facilmente corrompere le più profonde fibre del suo cuore ch’essa non si lasci trascinare consciamente e volontariamente a compiere il male. Tale è la semplicità primitiva dei suoi sentimenti ch’essa sarà piuttosto vittima di una grande menzogna che di una piccola. In generale, essa stessa non commette che delle piccole menzogne perché essa avrebbe troppo vergogna di commetterne delle grandi».

Il circolo infernale non può essere spezzato fintanto che non sia distrutto il sistema di finzioni sul quale si appoggia e si legittima il potere che ne permetta la saldatura. Il prezzo autentico della libertà è pertanto la demolizione dello stato monocentrico. Qualunque rivoluzione che non riesca ad assolvere a questo compito sarà una rivoluzione fallita. Peggio: sarà una rivoluzione la quale non avrà servito che a forgiare delle armi nuove per l’annientamento dei valori di cui invano essa si sarà illusa di aver perseguito la restaurazione. È per questo che l’abbattimento dell’ordine capitalistico non è di per sé stesso sufficiente a generare le condizioni di una veramente libera convivenza. […]

Bisogna che tutti coloro i quali intendono battersi per una rivoluzione la cui posta sia, non il trionfo di una setta, di un clan o di un sinedrio di gerarchi più o meno infallibili, ma la liberazione dell’uomo, si mostrino ad ogni istante coscienti della perentorietà di questa esigenza. […]

Ora, non vi è che un principio la cui giudiziosa applicazione permetta di raggiungere trionfalmente questo fine: il principio federalistico. Guai, però, se il federalismo, anziché essere utilizzato per l’audace e feconda conquista dell’avvenire, dovesse esser preso a pretesto del tentativo assurdo di ricondur la civiltà sui suoi passi. Indietro non si torna. E chi sognasse, in odio allo stato monocentrico, di veder moltiplicate le barriere dentro le quali gli uomini possano, nell’impunità, coltivare i loro più feroci egoismi di gruppo, mostrerebbe di nulla intendere, né del problema della storia, né di quello della libertà. […]

La dialettica non può operare nel vuoto, così come non potrebbe esservi l’oggi se non vi fosse stato l’ieri, nessun arbitrio rivoluzionario potrà per tanto valere a sospendere l’efficacia della legge universale che governa lo sviluppo dell’economia, di quella legge appunto la cui azione inesorabile si ritrova sempre all’origine di tutte le grandi crisi della società.

In omaggio a detta legge, il nuovo federalismo, ben lungi dal favorire il frazionamento per settori impenetrabili dei rapporti economici e la resurrezione dei mercati chiusi, dovrà promuovere un armonico e stabile coordinamento, dentro un quadro quanto meno continentale – in attesa di diventar mondiale – di tutte le economie particolari, messe oggi a sì dura prova dai micidiali conflitti nazionalistici. A qualunque costo, esso dovrà evitare di ripetere, sotto questo riflesso, gli errori compiuti con tanta incoscienza dai pacificatori di Versailles, disinvolti fabbricatori di stati a buon mercato e generosi distributori a tutti i popoli redenti di ermetiche cinture doganali.

Grazie a Dio, il ricordo di quel che è accaduto in Europa centrale, in seguito a tali spensierate iniziative – saggiamente, del resto, Otto Bauer ha pensato a tramandarne un’impressionante illustrazione – è ancora troppo vivo perché delle illusioni possano più essere nutrite al riguardo dagli uomini della Rivoluzione. […]

Qui sta racchiuso il segreto del successo della Rivoluzione. La cui parola d’ordine perciò non può essere che: autonomia – cioè: emancipazione brutale da tutte le superstizioni a lungo intrattenute dalla menzogna nazionalistica; affrancamento definitivo dalla estatica adorazione della macchina – simbolo a riproduzione in miniatura della struttura stessa dello stato onnipotente – e dalla servile obbedienza alle sue leggi; disintossicazione ostinata dei veleni sottili prodigalmente inoculati dai tenaci pregiudizi sui quali si fondano le nozioni sempre correnti dell’onore e dell’eroismo.

[…]

7 – La parola d’ordine della lotta per la conquista della libertà all’Europa

Alla distanza di quasi dieci anni da altre mie Riflessioni sulla crisi, è con le stesse parole ch’io son tentato di conchiudere questa mia nuova e disordinata esplorazione delle cause prossime e lontane cui sembra collegarsi lo scatenamento pauroso dell’attuale dramma europeo.

«Una sola condizione può esser posta a priori alla vitalità dell’ordinamento nuovo che la Rivoluzione vittoriosa potrà e saprà estrarre dalle sue proprie viscere: quella per cui l’aderenza dello stato alla realtà umana di cui esso deve esprimere la disciplina e la sintesi resta sempre fatalmente subordinata al trionfo integrale del principio dell’autonomia. È per il posto che a questo principio essa assegnerà nel sistema degli istituti che concorrono all’elaborazione della volontà dello stato, che le nuove costituzioni dei popoli europei dovranno sovrattutto differenziarsi, sotto l’aspetto giuridico e politico, dalle costituzioni storiche che le hanno precedute.

L’autonomia deve essere posta alla base di ogni attività, all’origine di ogni facoltà e di ogni potere. Essa sarà in diritto così come essa è in fatto, il fermento vitale che solo può rendere operanti gli interessi degli individui come quelli dei gruppi. Autonomia del cittadino; autonomia dell’imprenditore: autonomia dell’azienda; autonomia del sindacato; autonomia delle collettività territoriali, siano esse piccole o grandi, ovunque esse dian prova dell’esistenza di un centro unitario di un focolare, per sé stante di vita economica o politica o spirituale; autonomia dello stato.

«L’autonomia dello stato non può sussistere che in funzione dell’autonomia dei singoli elementi di quel mondo composito del quale esso effettua il coordinamento e in confronto del quale la sua volontà, in quanto intrinseca volontà di questo mondo stesso, diventa legge. Per tanto, essa non può tradursi in essere che sulla base di un denominatore che sia comune a tutte le specie particolari di autonomia che entrano a far parte della sua vita, di un denominatore che di questa sia in grado di cogliere, non gli scopi parziali e contingenti, ma il fine identico, di un denominatore, insomma, che possa fornire al giudizio arbitrale nella cui formulazione si concretano i momenti essenziali della missione che è propria della vita dello stato, una immutabile unità di misura. Questo denominatore comune non può essere che l’uomo nella complessa poliedricità dei suoi atteggiamenti, dei suoi appetiti, delle sue vocazioni, del suo destino».

Se, in nome e in forza di questa esigenza suprema, la Rivoluzione non saprà aver ragione della guerra, o se essa si mostrerà in seguito inetta a costruire – sulle basi che l’adempimento di questa stessa esigenza reclama – la pace, l’Europa per un tempo indefinito sarà votata a far l’esperienza della più spaventevole barbarie: la barbarie che accoppia la morale e i costumi della vita della giungla ai diabolici raffinamenti della tecnica più progredita. E, in questa ipotesi, solo un nuovo gigantesco medio evo nel quale il continente si trovi un giorno d’improvviso ripiombato, potrà forse ancora riservare all’uomo una estrema speranza di salvezza e di rivincita.

Ma per rimontar, dal fondo dell’abisso, alla luce della civiltà, gli sarà duopo, allora, di pagar il tributo di una pena di cui l’immaginazione, inorridita, si rifiuta, oggi, di apprezzar comunque la misura.

Da Stato - Nazione Federalismo, Tolosa, scritto nel 1940 (diffuso negli ambienti clandestini della resistenza antifascista veneta dopo il 25 luglio 1943, in seguito al rientro in Italia da Tolosa, pubblicato a Milano dalla Casa editrice «La fiaccola» nel giugno 1945).  

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